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Torre del Greco, in un lontano giorno dell'anno 1886, un giovanotto
sui 22 anni, biondo, col pizzetto, entrò nel chiostro dell'ex
convento dei Carmelitani al largo del Carmine da poco ribattezzato
Piazza del Popolo.
Qell'ex convento da qualche tempo era adibito a scuola di addestramento
professionale per gli artigiani del corallo.
Il giovanotto veniva dalla gentile Torino, ove era nato il 4 maggio
1864.
Aveva compiuto i suoi studi presso l'Accademia Albertina di belle
arti in Torino meritandosi parecchie medaglie d'oro, d'argento,
di bronzo e menzioni onorevoli in tutti i concorsi sostenuti.
Per il titolo di insegnante di disegno risultò primo classificato.
Aveva compiuto altri studi in istituti superiori ottenendo innumerevoli
premi in borse di studi e viaggi.
Nominato dal Regio Governo, egli veniva nella nostra città
a dirigere quella scuola che prenderà il nome di «Regia
scuola di incisione sul corallo, di arti decorative e industriali»
(R.D. 21 agosto 1887).
Quel giovanotto, gentile come la città che gli aveva dato
i natali, era il prof. Enrico Taverna.
Questo mio ricordo, scarno per le mie limitate possibilità
di esprimermi su certi argomenti, è nello stesso tempo così
saturo di emozioni, che provo un senso di inibizione nello scrivere.
Par di vederlo e sentire la sua voce sussurrare: Eh. Raffaele, ma
che stai facendo? aggiungendo subito: - Hai rovinato un «folio» di carta Fabriano!…
E poi, dove trovare le parole per manifestare la riconoscenza, l'ammirazione,
la stima, il rispetto di una città intera verso un uomo che
amò questa terra più della sua città d'origine
ed i suoi allievi certamente come suoi figli? - L'arte è
il miglior patrimonio - diceva. Ed oltre ad insegnare l'arte, che
per tanti doveva essere l'Arte con la A maiuscola, egli era maestro
anche nella vita.
Quanti artisti!… Pittori, scultori, incisori, e quanti artigiani!…
Stuccatori, edili, falegnami, fabbri, calafati…
La scuola allora, come oggi, che è Istituto Statale D'Arte,
oltre ai lavoratori del corallo, della madreperla e materie affini,
preparava anche gli artigiani dell'industria. I corsi serali della
scuola erano frequentati da tanti alunni. Lo spiazzo antistante
l'edificio si popolava di tanti giovani, che dopo la giornata di
lavoro, da quella scuola attingevano il perfezionamento del loro
mestiere.
Non era raro il caso di vedere qualcuno, non più giovane
con le tempie brizzolate, seduto tra i banchi nell'aula del primo
corso di disegno; a questi il professor Taverna, anzi il direttore,
usava una particolare attenzione indirizzandolo per la via giusta,
cioè verso quel ramo di disegno professionale più
appropriato al mestiere che esercitava. Quanti anni!… Quanti volti!…
Quanti nomi!… Eppure egli li conosceva tutti, non li dimenticava,
li seguiva dopo il conseguimento del diploma e quando si facevano
onore, egli con orgoglio diceva: - È stato alunno della Scuola.
Con la famiglia, con i suoi nipotini che egli adorava, la scuola
era l'unico scopo della sua vita. Nella scuola trascorreva anche
i giorni festivi.
Negli ultimi anni in cui frequentai la scuola, erano
in corso dei lavori di ammodernamento dei locali. Il mio posto di
studio non era più nei banchi ma nella stanza della Direzione
accanto a lui.
L'antivigilia della festa dei Quattro Altari del 1929, il Vesuvio
entrò in eruzione e la lava avanzava velocemente su Terzigno.
Quella sera io dovevo completare i bozzetti delle luminarie per
la consueta esposizione del giorno seguente ed era già notte
inoltrata. Bagliori rossi serpeggiavano nel cielo. Ero rimasto solo,
immerso nel silenzio interrotto solo dai rintocchi dell'orologio
della vicina chiesa e dei cupi, deboli, boati del Vesuvio.
Il direttore nel lasciarmi mi aveva pregato di completare i disegni,
di colorarli e di aver cura di avvertire il custode nel momento
in cui sarei andato via. Il brontolio lontano del vulcano, quel
cielo di inferno, quella solitudine, quelle mura misteriose del
vecchio convento avevano destato in me un certo senso di paura.
Era accesa soltanto la lampada da tavolo e la stanza era velata
dalla penombra.
Non avevo più biacca sulla tavolozza e dovevo andare in un'altra
stanza a prelevarla. I colori si trovavano in un cassetto della
scrivania, ricordavo benissimo che era nella stanza attigua, dove
chissà per quale causa le luci non si accendevano.
Andai a rovistare a tentoni, ma di quella maledetta scrivania nessuna
traccia.
Le mie mani tremanti incontrarono la maniglia di una porta che immetteva
in un'altra stanza.
Istintivamente aprii… per poco non morii di paura. Mi trovai faccia
a faccia con un uomo, con baffi e barba, tutto bianco… era certamente
un fantasma…
Un attimo dopo ero nella piazza e non ricordo come feci ad uscire
e se avvisai il custode. Ricordo solamente che i bozzetti li completai
il giorno dopo quando, fra le risate del direttore, seppi che c'era
stato uno spostamento di mobili ed arredi dovuto ai lavori in corso.
Quel giorno stesso feci la conoscenza con il… fantasma. Era una
copia in gesso del busto del dottor Antonio Brancaccio, quello che
oggi si trova nella Villa Comunale.
Dopo tanti anni che era a Torre non sapeva pronunciare
una sola parola in dialetto. A quei tempi l'automobile era un oggetto
raro perciò don Gaetano Paolillo, organizzatore insuperabile
della Festa dei Quattro Altari, metteva a disposizione del direttore
una carrozzella per fargli raggiungere agevolmente i luoghi dove
si realizzavano gli altari e le luminarie. Una volta mi disse: -
Eh! Raffaele! Vedi giù se è arrivato il materiale
-.
Mi recai giù e non vedendo niente risalii.
- Direttore, quale materiale? giù non c'è niente!
- Il materiale !… Salvatore!… Il cocchiere!…- esclamò sorridendo.
Voleva dire «Tore 'o matriale», come veniva chiamato appunto
quel cocchiere che stava giù aspettando, seduto in serpa
fumando il suo bravo sigaro.
Intorno
al 1932 ebbe l'incarico di progettare una chiesa che doveva sorgere
a Buenos aires ed essere intitolata «Nuestra Señora
de los dolores». Una chiesa grandissima, non ricordo le
dimensioni esatte.
Si progettava su scala di 1:50 e la «tavoletta» misurava
2 metri e 50 per 1,75.
nella sua villetta in via Cristoforo Colombo, una stanza era adibita
a studio ed era lì che trascorrevo giornate intere, rimanendo
spesso solo in casa, alle prese con gli altari, le predelle, gli
archi, le piante, le sezioni ecc.
Quando i disegni furono completati, li raccogliemmo in un tubo metallico
che assomigliava ad un cannone. Era la sera di carnevale. Una pioggia
torrenziale cadeva sulla città. Tornavamo dall'ufficio postale
dove io e Giovanni il bidello avevamo portato… il cannone. Ritornai
per primo a scuola, perché Giovanni si fermava in tutti i
posti dove si vendeva il vino e infatti egli arrivò dopo.
Grondava acqua da tutte le parti. Il direttore con il mento sul
petto e lo sguardo al di sopra degli occhiali, appena lo vide, subito
intuì:
- Eh Giovanni! Sei caduto nella lava!…
Non si adirava mai. Era smpre calmo e gentile
con tutti. Gli piacevano le battute di spirito, non quelle volgari.
Una volta ci incontrammo per strada e , avendo notato che zoppicava,
posai lo sguardo sui piedi. egli se ne accorse e quando mi fu vicino
mi disse:
- Eh Raffaele! Ho cambiato materia di insegnamento… Non insegno
più disegno.
Un attimo di pausa, mentre io lo guardavo incuriosito. - Ora insegno «calli… grafia» - aggiunse con il suo abituale sorriso.
Fu quella una delle ultime volte che ci vedemmo.
In un tardo pomeriggio, nella primavera del 1945, vidi sui muri
l'annunzio della sua morte. I funerali erano già avvenuti.
Era morto il giorno prima, il 26 aprile.
Difficilmente provo il senso del rimpianto, lo ritengo inutile.
Non rimpiango nemmeno la giovinezza che giorno per giorno, si affievolisce
sempre più nel ricordo. Ma il rimpianto, che avolte sento
come una colpa, è quello di non aver accompagnato il mio
venerato maestro all'ultima dimora.
La foto mostra la Parrocchia «Nuestra Señora de los dolores» a Buenos Aires
oggi.
Tratto
da: www.parroquia-dolores.com.ar/templo.html
(*) Tratto dalla terza edizioni
degli «Itinerari Torresi».
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