Il 21 novembre 1828, era di venerdì, alle
prime luci dell'alba, quando il sagrestano da pochi minuti aveva
aperto la chiesa ai fedeli per la prima messa, la cupola rovinò
con grande fragore, seppellendo sotto le macerie alcune pie donne.
Lo porta centrale, per lo spostamento d'aria, fu divelta dai cardini
e scaraventata all'altro lato della piazza.
Il progettista Ignazio di Nardo di cupole se ne intendeva. Era stato
allievo del celebre architetto Ferdinando Fuga e proprio questi
gli aveva consigliato nel 1774 di demolire la cupola del Gesù
Nuovo perché pericolante. Il Di Nardi seguì il consiglio
del maestro e sostituì la grossa cupola del «Gesù»
con una «scodella» ed è quella che ancora oggi
si vede.
Ironia della sorte, la grossa cupola della nuova chiesa di S. Croce
a Torre del Greco, costruita dal Di Nardo, dovette essere sostituita
da un'altra «scodella», simile a quella che lo stesso
Di Nardo aveva costruito per la chiesa del Gesù.
A Torre si sentiva ripetere spesso : «'A Cannelora state
dinto e vierno fora», per dire che nel giorno dedicato
alla festa della Purificazione della Vergine (La Candelora, perché
si benedicevano le candele da accendere al capezzale dei moribondi)
entrava l'estate e andava via l'inverno. Ciò non è
per niente vero e non fu vero specialmente in quel 2 febbraio del
1830, quando soffiava impetuoso il vento di tramontana e la neve
turbinava nell'aria.
Non valsero a nulla le esortazioni della sorella Gelsomina:
Vicié, nun ascì stammatina, nu vide che bruttu
tempo? Sta facenn''a neve,
tu sciulìe e te faie male
- Chello che vo' Ddio, Gesummì - rispose dolcemente
don Vincenzo, alzando lo sguardo al cielo, e uscì tra l'ululare
del vento e il nevischio che gli sferzava il viso.
Durante la celebrazione della messa, si sentì male, perse
i sensi e cadde sulla predella dell'altare.
Aveva l'apparenza d'un cadavere e fu ricondotto a casa su di una
sedia da alcuni fedeli che si trovavano in chiesa. Da quel giorno
don Vincenzo non uscì più di casa.
Si spostava con fatica trascinandosi con le grucce e con il bastone,
e ottenuta l'autorizzazione dalla Santa Sede, celebrava la messa
nella sua dimora che aveva trasformato in una piccola chiesa.
Intanto gli acciacchi si aggiunsero all'originale frattura di un
femore. La quasi immobilità gli aveva
procurato piaghe alle gambe e una malformazione della colonna vertebrale,
tutti malanni dolorosissimi che il santo accettava con gioia, perché
- egli diceva - erano nulli a confronto con quelli patiti da
Gesù Cristo sulla Croce.
Le sofferenze diventavano sempre più pesanti e questo stato
durò fino a metà dicembre del 1831, quando don Vincenzo
venne colpito da una polmonite doppia. Ormai era la fine.
Appena venuto a conoscenza della diagnosi del dottor Michele Cianguitto,
l'infermo chiese al sacerdote Diego Colamarino di volersi confessare
subito e ricevere così al più presto tutti conforti
sacramentali.
Col trascorrere delle ore, a mano a mano che si avvicinava il grande
momento, il moribondo intensificava le sue preghiere, invocando
i nomi di Gesù e di Maria. Eppure le sue ultime parole furono
di rampogna i bugiardi.
Durante la notte tra il 19 e il 20 dicembre, nei pochi istanti di
lucidità chiedeva spesso del nipote don Felice Romano, che
premuroso correva al capezzale dello zio per ascoltare le sue ultime
raccomandazioni, gli ultimi consigli. Le lunghe veglie delle notti
precedenti avevano spossato molto il fisico di don Felice che, vinto
dalla stanchezza, era caduto in un sonno profondo, e quando don
Vincenzo chiamò per l'ennesima volta il nipote presso di
sé, al suo posto si presentò don Giuseppe Noto che,
alterando la voce, voleva far credere di essere lui il nipote.
- Zi pré, che bbulite?
Don Vincenzo schiuse dolcemente gli occhi e con accento severo disse:
- Vuie nun site mio nipote. E ricurdàteve c' 'a bbuscia
è sempre peccato.
Ancora una volta, per l'ultima volta, non aveva parlato con
«linci e quinci».
L'ASCESA
ALLA GLORIA DEI BEATI
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