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Tratto dal n°12
de LA TORRE 
27-7-78  
di
VINCENZO DI DONNA
 
Un racconto storico torrese ambientato nella seconda metà del '600
Il campanarista di S. Croce

di VINCENZO DI DONNA

con introduzione e considerazionidi RAFFAELE RAIMONDO


Il racconto che segue fu pubblicato in Torre del Greco per i tipi dello Stabilimento Palomba e Mazza nel 1931. Fa parte della collana «Racconti storici torresi» che il Sac. Vincenzo Di Donna enumerò nel modo seguente: N°. 1 - «Fra' Natale», 2° ed.  1930; N°. 2 - «Un campanarista di S. Croce», 2° ed. 1931; N° 4 - «Storia di Santa Maria del Principio», 2° ed. 1931; N° 5 - «Turris Octavia», parte I e III, 1952. Come si vede, manca il N°3 e la II parte del N°5. Sappiamo che di quest'ultima, la II parte non venne mai pubblicata, ma non sappiamo dove sia andata a finire il manoscritto. Anche il N°3 non fu mai pubblicato e di questo non se ne conosce nemmeno il titolo.
L'autore, seguendo il filo storico, fa ruotare nel soggetto oltre ai personaggi fantastici, anche quelli veri, cioè quelli esistiti, e cita nella stesura le varie denominazioni delle località torresi del tempo, avvenimenti reali, eruzioni e tutto ciò che avveniva nella nostra città nella seconda metà del Seicento tra cui il «Riscatto Baronale» (14 giugno 1699).
Il testo che di seguito pubblichiamo non è integrale. Abbiamo ritenuto, in tutta modestia, sopprimere qualche periodo, il che non toglie nulla, e rendere lo stile più intelleggibile al lettore, sostituendo qualche parola di tipo arcaico. Inoltre abbiamo inserito, in corsivo, alcune note, o per spiegare meglio, o per delle osservazioni a proposito di certi fenomeni vulcanici, o per qualche data posticipata dall'Autore per esigenza cronologica del Racconto.
R.R.

-1-

Nell'eruzione vesuviana del 1631, fra i tanti fenomeni tellurici soliti a verificarsi in simili circostanze, vi fu ancora quello che con parola tecnica si dice bradisismo, ossia sollevamento del suolo. Il mare dacché lambiva i muraglioni del nostro Castello si ritrasse per tutto quello spazio che una volta si chiamò Mare Seccato e che oggi corrisponde dalla Ripa a Gavino e Dogana di Finanza (quest' ultima nei primi anni del '900 era ubicata alla Spiaggia del Fronte).
Per tanta sorpresa ed anche perché i pozzi avevano patito l 'istessa diminuzione d'acqua, si fece largo l'opinione che a causa dei movimenti vulcanici fossero delle falle prodottesi nel sottosuolo, per cui le acque penetrando in cavità mettevansi a contatto del fuoco centrale terrestre, e quindi la lotta fra i due elementi opposti con quelle funeste conseguenze di s'era stati spettatori.
Fu così che il nostro Municipio, a quel tempo denominato Università, pensò di nominare due persone: il Nettatore alla Fontana e l'Avviatore della Montagna. Quello vigilante il tenore delle acque nel corso pubblico, doveva in caso di secca, comunicarlo al secondo. Questi, di permanenza su quel nostro mozzicone di campanile (era basso perché non era ancora completato), nel ricevere l'annunzio guardava il fumo sulla bocca del Vesuvio - scarso o abbondante, bianco o nero - e previsto il pericolo, ne dava l'annunzio al paese con alcuni speciali rintocchi della campana grande.

Nel 1656, per l'infuriare della peste, a Torre morirono non meno di quattromila persone e tra queste il parroco Nicolandrea Balzano e l'Avviatore della Montagna: incarico quest' ultimo rimasto vuoto perché non fu più nominato il successore.

***

Il giorno primo del febbraio 1681, quando appena albeggiava, si udì uno squillare di campane sorprendente. Erano rintocchi vibrati, sonori, inseguendosi l'uno dopo l'altro con ritmica impeccabile, di lontano, da vicino, sempre distinti e sempre precisi, tanto nell'incalzare, come nelle più tenui sfumature. Qualche cosa di mai udito e che spingeva a togliersi di letto per conoscerne la causa.
 - Perché si suona a festa! ... Chi è sul campanile? - ed i curiosi aumentavano di mano in mano, col naso in aria per scoprire chi era l'autore di tanta musica. Ma non appariva nulla, sembrava che le campane si muovessero per una forza occulta, come se un nervosismo avesse invaso i batacchi che colpivano senza misericordia. Fu gioca forza aspettare un bel po' di tempo perfarla finita. Quand'eccoti finalmente apparire un ... turco! Si proprio un turco, con turbante , camiciola e brache in tutta regola, alto e secco come un coltello, le braccia al sen conserte e senza il minimo segno di stanchezza, quasi non fosse stato lui a suonare.
Un oooh! prolungato di delusione accolse la comparsa - Boia d'un diavolo - scappò a qualcuno - è arrivato stanotte da S. Sofia di Costantinopoli?! Gli altri guardandosi, domandavano: - Ma chi è? E' nato qui quella figura? ... Solamente un marinaio, «Giuvanne 'u masardo», esclamò: - E' «Scuppetta», il figlio di Anna Rosa ... Ha suonato perché hanno eletto il parroco!

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Scuppetta, se mai avesse avuto quel nomignolo, poteva sempre guadagnarselo, tant'era l'affinità tra il suo comportamento e l'arnese omonimo.
Nel nascere gli si diede il nome di Antonio, in omaggio al Santo del giorno che fu quello del 13 giugno 1622. La madre era certa Anna Rosa Sorrentino, attempata contadina della contrada Carbolillo, passava per una donna energica e risoluta, tanto da aver saputo regolare i conti con il Caporale della Torre di Bassano, disarmarlo e costringerlo a mutare aria. Ad una parete della sua casa, quasi trofeo, pendeva difatti sinistramente uno schioppo, il che se infondeva rispetto ai passanti, stimolava per altro quel suo bambino, che dall'ammirarlo e toccarlo passò subito ad usarne per spauracchio del vicinato ... scarico naturalmente. Di qui il soprannome: «Scuppetta».
Però del carattere impulsivo del figlio, la madre non si augurava alcun che di bene e con l'esclamare: E' proprio figlio a me! - deliberava giàin cuor suo il piano da attuare: mandarlo per mare: - Così impara! Difatti quando appena il ragazzo toccava gli otto anni, venne lei da compare Battimo Cerillo, il pastore che la domenica apriva «chianca» al Porchianisi (oggi la località è denominata Gradoni e Cancelle), ivi scelse uno tra i migliori capretti della mandria e corse difilata dal padron Vincenzo Garofalo, largo suo parente, a fargliene regalo. Ma così, senza scopo di sorta, per sapere come stavano quel di casa, se l'anno seguente si tornava alla solita pesca del corallo, e solo quando n'ebbe affermativa,  si ricordò di suggerire:   -   Portatevi pure «Scuppetta» . Non perché m'è figlio ma quello ne vale dieci e vi farà onore!
Padron Vincenzo, impreparato a questo ... secondo regale, se lo fece ripetere ancora una volta e poi, mostrandosi di accondiscendere per rinfrescare la vecchia parentela, enumerò «Scuppetta» tra la ciurma della sua feluca sottile: «S. Maria La Bruna», in partenza dalla marina di  S. Aspreno per le acque di S. Eufemia e Messina (la marina di S. Aspreno era ubicata tra il centro attuale del Corso Garibaldi e il Largo di Gavino e si accedeva dall'attuale Via Gradoni e Cancelle).
Però dice il proverbio:  - Se l'uomo propone, Dio dispone - e proprio come capitò al biblico Giona, avvenne che appena la colonna delle barche lasciò terra, li colse un violente fortunale per cui dovettero riparare , chi tornando a Torre e chi rifugiarsi in Castellamare e a Sorrento. La sola «S. Maria la Bruna» arrivò a toccare Capri.
Il giorno dopo, nel rifarsi del tempo, la feluca di padron Vincenzo Garofalo era per disporsi al largo qual segnale agli altri, quando, da prua, sbucò una galeotta turca di posta nei crepacci dell'isola, intimando la resa. Erano caduti in mano dei pirati barbareschi e fatti schiavi.
Della disavventura come non s'erano accorti gli altri padroni di barche, così anche Anna Rosa rimase al buio, mai sospettando un sinistro a si breve scadenza. Fu nel seguente ottobre quando tornarono in patria le feluche: tutte si numerarono fuorché la «S. Maria la Bruna» dov'era imbarcato «Scuppetta». La povera donna si rase i capelli, come prescrivevano le usanze dei tempi ed esclamò fiduciosa: - Se non è morto, qui tornerà! - Era il motto che le tornava in bocca ogni qualvolta la si domandava, e bisogna anche aggiungere che il figlio non ne deluse la speranza. Tornò difatti, ma quanto la madre non lo poteva più accogliere, ne abbracciare. Anna Rosa, colpita tra i primi dalla peste, era morta da un pezzo, col nome del figlio sulle labbra.

***

Nessuno pensò a riscattare «Scuppetta» e il ragazzo restò prigioniero dei turchi, soggetto al lavoro forzato. Poi si naturalizzò, apprese ogni segreto, prevedeva il pericolo, misurava le difficoltà e riusciva sempre preciso nell'intento. Per la lunga lena del remare aveva acquistato tale vigoria di braccia che dalla stretta si rimaneva immobilizzati in una morsa d'acciaio: prodigioso nell'arrembaggio, spaventevole nel colpire.
Campo delle sue scorrerie erano in particolare le coste della Francia e di  Spagna, e fu buona ventura l'allontanamento dal luogo natio, perché anche lui soffriva di una singolare debolezza. Quando gli accadeva di riudire il linguaggio della sua puerizia diventava molto triste, quasi affascinato, non era più energico. Quel suono lo accarezzava, gli presentava ombre tenui, evanescenti, nostalgiche, sperdute nella lontananza del tempo e delle abitudini. Non poteva resistere a tanta dolcezza e soavità, n'era conquiso, inebriato, fino al punto che fu questo il principale motivo per farlo decidere all'abbandono di una vita piena di emozioni e per tanto confacente al suo carattere.
Padron Giovanni Langella, detto 'u mansardo - marinaio non tanto ardito, ma flessibile agli eventi, sapendo  all'occasione incutere spavento  o scappare dalla paura con trovate originali e graziose, così che non sapevasi mai distinguere se era lui a crearle, oppure esistessero nell'ordine naturale. Fu l'uomo che avventuratosi pel mare di Malaga allo scopo di riuscire a trovare più corallo, capitò diritto nelle mani di «Scuppetta» - Come?!... Saresti proprio tu a trattenermi?! - urlò padron Giovanni - Possiedi questo fegato?! - Non hai vergogna di tanta temerarità?!... E sei torrese tu?! ... Bastò quest'ultimo accenno per rimanere vincitore. «Scuppetta», colpito nel vivo si arrese, e non solo lo riponeva in libertà, ma egli stesso deliberò di far ritorno alla sua terra natale, gonfio di cuore e con la disposizione nell'animo di rendersi benemerito chi sa di quali innovazioni e miglioramenti. Finì per mettersi al servizio del sacerdote torrese, Don Giovanni Battista Raiola.

***

Nei primi giorni di dicembre del 1680 moriva il parroco Don Francesco Antonio Vitelli, dopo appena sette anni di cura d'anime, ed i governatori di S. Croce, com'è loro diritto, si riunirono ai 13 del detto mese per la nomina del successore da proporre alla Curia Arcivescovile  ( il Di Donna scrisse il racconto prima del 1929. Prima del Concordato si usava così. La chiesa essendo di patronato municipale, la nomina del parroco era di pertinenza Comunale salvo l'approvazione della Curia Arcivescovile).
Passati in rassegna tutti i preti del clero locale, si aprì la discussione su due nomi: Don Giovan Battista Raiola, al cui servizio era «Scuppetta» e Don Carlo D'Amato.Alcuni, ed erano i più fervidi, volevano ad ogni costa che si preferisse il primo, gli altri tenevano fermo sul secondo, perché dal carattere mite di costui auspicavano un migliore governo e vinsero proprio col prospettare l'umore popolare.
Don Giovanni Battista Raiola aveva difatti una sorella, Carmina, molto più giovane di lui, la quale, immischiandosi in tutte le faccende della vita cittadina, compresa quella ecclesiastica, si rendeva odiosa ed insopportabile. Una specialità di Carmine era proprio quella di appurare quanto avveniva nella pubblica fontana, luogo in cui le prammatiche d'allora ne proibivano l'accesso agli uomini ogni qualvolta le donne vi si recavano a ripulire il bucato. Guai se una gonnella si lasciava sopprendere. Don Giovan Battista , istigato dalla sorella, subito correva a redarguire, ora il forestiere, ora i soldati di corte, e perfino il Governatore della città per una più scrupolosa oculatezza. Di questo i governatori di S. Croce ne presero atto e scelsero Don Carlo D'Amato.
Appena si propagò la notizia della scelta, Carmina diventò ancora più velenosa del solito.. Torcendosi le mani se la prendeva con i governatori della chiesa e principalmente con Donato Chiumiento, Pietro Castiello e Fabrizio Brancaccio. Di quest'ultimo diceva: - E' sempre lui a portare il gonfalone!... Vuol  comandare da solo, noi gli diamo ombra! Il sornione deve abbrancare tutto! Pensasse allo stinco di sua figlia: non la vede che fa da franca per tutti i gaifi?! (il gaifo, o meglio il gaifone, è un uccello che non sta mai fermo e che, appunto, salta in continuazione da un ramo all'altro). E via su questo tono, deprecando, rammaricandosi, mordendo or questo, or quello, senza mai finirla, trascurando i più necessari bisogni di casa.
«Scuppetta» era li a sentire, fiutava odor di polvere per aria, s'ingrossava nell'animo. Tra la pelle gli veniva del solletico, bisognava che operasse qualche cosa per i suoi benefattori e, perché non sapeva giocar di bocca, ne pensò una da pari suo.
Prese novella di Don Carlo, dove abitava, quando usciva, quando rincasava e la sera dopo fu ad aspettarlo dietro il portone d'ingresso. Il povero prete, inconscio di quello che gli stava per capitare, veniva cheto cheto dal Vicolo delli Pigni (è l'attuale Vico Bufale) col lanternino per farsi lume, e non ancora aveva rinchiuso il battente, quando si trovò tra due ferri, sollevato, introdotto in casa e scaraventato sul letto. Un turco gli si parava davanti e: - Come ora ti ho portato in casa - gli diceva - così ti porterò a Calastro quando ti nomineranno parroco!
Calastro era allora un posto di rifiuto, vi si lasciavano le carogne a marcire e l'allusione valeva quanto la più grave minaccia...
Appena fu giorno, Carmine Padoano, altro governatore di S. Croce, si recò di corsa da Don Giovan Battista Raiola per raccontargli che Don Carlo D'Amato non avrebbe più accettato. La notizia era talmente certa che la sorella del prete gongolava per la gioia. Infatti in una riunione dei governatori nel convento di Maria di Costantinopoli, scelsero Don Giovan Battista Raiola quale parroco, in sostituzione di Don Carlo D'Amato ... dimissionario, ed al 31 gennaio 1681 venne inoltrata alla Curia Arcivescovile la relativa deliberazione. Fu appunto da questo avvenimento che «Scuppetta» prendendosela come vittoria tutta sua, vestito da turco, si diede a picchiare di santa ragione nelle pubbliche campane.
Ma la «scelta» non era la nomina. Il popolo tumultuava, sapeva che Don Carlo D'Amato non aveva presentato le dimissioni per iscritto, perciò la Curia non prese alcun provvedimento.
Erano trascorsi due anni e più dalla morte di Don Francesco Antonio Vitelli e non ancora si era nominato il successore. A darla veramente finita fu la morte del tutto inaspettata di Don Giovanni Battista Raiola, avvenuta il 6 gennaio 1683. E nemmeno fu nominato parroco Don Carlo D'Amato. Fu nominato invece Don Aniellantonio Brancaccio.

***

Se Don Giovan Battista Raiola era sparito, rimaneva però «Scuppetta» il quale, niente affatto ansioso di seguirlo, meditava a tempo propizio, per attuare uno dei suoi tiri birboni.
Nell'ottobre del 1685, v'era stata qualche ripresa nell'attività vesuviana, con getti di fuoco, cenere, folgori e lapilli. Una di quelle manifestazioni minori, a quanto siamo soliti considerare, priva come fu di eflusso lavico e senza danno ai terreni sottoposti. Nondimeno i vecchi che ricordavano  l'eruzione del 16 dicembre 1631, per mostrare di saperne un poco più degli altri, andavano predicendo - guardate un po' - una certa concordia tra il fuoco e la rigidità della temperatura invernale, quasi che l'eruzioni dovessero avvenire esclusivamente nella detta stagione. «Scuppetta» poi la minacciava addirittura, perché riteneva che dovesse esservi una immancabile riprovazione da parte divina ai fatti accaduti e la sua pretesa passava per infallibile, come se l'avesse proclamata il più illustre dei moderni direttori dell'Osservatorio Vesuviano. Si era dunque in apprensione e frattanto sopravveniva il Natale senza che gli oracoli si avverassero. Non sono questi i momenti di malinconia  ed infatti i torresi, mettendo da parte ogni apprensione si preparavano a trascorrere le feste in letizia.

 
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