Riproponiamo, in occasione della Notte Sacra 2023, a cinque anni dalla canonizzazione del nostro Santo, il capitolo “Vincenzo Romano” tratto da “Uomini e fatti di Torre del Greco” scritto da mio nonno Raffaele Raimondo.
Come dice l’autore in questa trattazione non s’intende scrivere la biografia del Santo ma ci si limita a registrare i diversi eventi storici, con particolare attenzione ai “fatti più salienti accaduti a Torre del Greco durante la vita del Santo”.
Lo presentiamo suddiviso in diversi paragrafi che evidenziano le diverse tematiche trattate dall’autore, tenendo fede alla versione originale.
Introduzione
(…) Non intendiamo scrivere la biografia del Beato: sarebbe una volgare scopiazzatura da opere nelle quali l’argomento è stato ampiamente trattato da autori edotti in materia, quali il rev. Giuseppe Romano (1881); il rev. Luigi Scognamiglio (1912); il sac. Camillo Balzano (1932) e mons. Salvatore Garofano (1963) e altri ancora disseminati nel tempo e che non conosciamo, tranne un antico postulatore, don Leopoldo Colantuono, «’u prèvete ‘i scippillo» che pur doveva scrivere qualcosa su Vincenzo Romano.
Noi ci limiteremo a registrare piuttosto quegli eventi storici di cui non si è parlato mai e di quelli sui quali non si è detto la verità, con particolare attenzione sui fatti più salienti accaduti FATTI PIU’ SALIENTI ACCADUTI A TORRE DEL GRECO DURANTE LA VITA TERRENA DEL ROMANO.
Nel 1780, Ferdinando IV aveva rivolto la sua attenzione alla strada Napoli -Torre Annunziata e gl’ingegneri Antonio Winspeare e Ignazio di Nardo avevano iniziato i lavori, incominciando dal Ponte della Maddalena. Nel progetto era prevista anche la costruzione di una nuova strada a Torre del Greco che dalla Porta di Capo Torre andasse a congiungersi con la Via Episcopale, in modo da servire per scorciatoia ai veicoli che erano costretti a seguire l’unica via esistente che serpeggiava nel centro abitato, e anche perché lungo la progettata strada Gaetano De Bottis stava costruendo il pubblico mercato. Lo stesso De Bottis, data la sua amicizia col primo ministro Tanucci, aveva restaurata ed abbellita la Porta di Capo la Torre, aveva recuperata l’acqua del Dragone, aveva costruito i nuovi lavatoi, il mulino, la nuova fontana e il palazzo della Dogana della farina. Altre nuove opere intendeva realizzare, quale il porto per le «coralline», l’ampliamento e una nuova sistemazione del Largo della Chiesa e se queste nuove opere non furono realizzate fu solo perché, nel 1776, il Tanucci, per volere della regina, fu costretto a lasciare la carica di primo ministro.
Ed era anche ora, perché il regno di Napoli in realtà aveva regnato sempre da Madrid, Carlo III, padre di Ferdinando.
Trascorse un decennio durante il quale gravi sconvolgimenti politici andavano maturandosi in Europa. In Francia, i parigini, il 14 luglio 1789, avevano preso d’assalto la Pastiglia e da quel giorno incominciarono a traballare tutti i troni del Vecchio Continente.
Morte di don Gaetano De Bottis. Solenne rito funebre nell’antica chiesa di S. Croce: la più grande assemblea massonica a Torre
Il 10 maggio 1790, giunse a Torre del Greco una triste notizia; don Gaetano De Bottis, durante la notte si era spento nella sua casa di Napoli a Vico Candelora.
Il primo a precipitarsi in Napoli, se non vi si trovava già, presso il maestro in fin di vita, fu il sacerdote torrese Francesco Saverio Loffredo che, primo fra tutti, si prodigò nel rendere i meritati onori all’illustre concittadino scomparso.
Dopo il servizio funebre celebrato nella chiesa di S. Giovanni Maggiore, poco distante dall’abitazione del De Bottis, il giorno seguente, 11 maggio, la salma venne inumata nella Congregazione del Rosariello di Palazzo sopra i «quartieri» di Via Toledo.
L’infaticabile Don Saverio Loffredo d’accordo con l’eletta schiera di amici del De Bottis, tutti preti giansenisti e professori dell’Università, col consenso entusiasta del Capo Ruota don Francesco Pennecheda, acceso giansenista più degli altri, e con l’adesione spontanea della marchese Francesco M. Bèrio, altro esponente della massoneria napoletana, decide di onorare il De Bottis nella sua patria. E tutti si misero all’opera.
Gli amministratori di Torre del Greco stanziarono la somma di 36 ducati e mezzo, dei quali, due andarono al sac. Don Salvatore Raia per copiare le iscrizioni funerarie dettate dal latinista Campolongo e da un certo signor De Vico. Iscrizioni dipinte su dei cartoni che qualche storico torrese, riporta addirittura per lapidi ed epigrafi funerarie, poi, distrutte dall’eruzione del 1794.
Il 28 giugno 1790, l’antica chiesa di S.Croce era pronta ad accogliere il fior fiore della cultura napoletana, mentre i primi curiosi si affollavano ad ammirare la sfarzoso apparato, e dato che il latino nessuno degli osservatori accorsi capiva niente, la loro attenzione era rivolta al ritratto del De Bottis che il marchese Bèrio aveva prestato per l’occasione.
“Matalè’, tiene mente, Matalè’! Ron Gaetane!… E’ tale e quale Pare ca te parla ‘a vicin’a chillu ritratte!…Ma cumm’è mmuorto? Gesù, i”a poc”u veriette. Assù, ‘i m”u ricordo quanno veveva abbasc”a funtana…”
Sotto gli sguardi esterrefatti del povero parroco don Gennaro Falanga e del sacerdote don Vincenzo Romano, si videro arrivare da Napoli, con una diligenza, strumenti, e suonatori di una grande orchestra che si dispose ai lati del presbiterio. Era stata offerta dagli amici di Napoli. Dagli amici che erano stati tutti fautori della cacciata dei gesuiti dal Regno, con l’accorato disappunto di padre Alfonso De’Liguori che intanto, da tre anni, era andato a raccogliere il premio nel Regno dei Cieli.
Don Saverio Loffredo faceva gli onori di casa, perché di chiesa nemmeno a parlarne…Dall’alto del sacrato, in mezzo alle due rampe di scale, don Saverio Loffredo aguzzava lo sguardo per vedere se arrivavano le carrozze.
A poco distanza c’era l’eletto don Peppino D’Istria e il calessiere di don Saverio che parlottavano tra loro. Immagiamo di ascoltarli.
“Vicié’- fa don Peppino – tu haje sempe accompagnato a Papule, don Saverio, ma dimme, tu ne canusce quaccuno ‘i ‘sti signore ca mo véeneno?”
“Don Peppì -risponde Vincenzo il calessiere – vuie mo vedite arrivà meza Papule, cumme faccio a conoscerle tutte quante? Però parecchie ‘i cunòsche, pecché me l’ha fatte vedé ‘u guardaporte r”u marchese Bérie, quanno aggio aspettato ‘i nuttate sane, ca ron Saverio scennesse ‘a copp”a casa r”u marchese e po’ accumpagnàveme pur’a don Gaitano a casa suja, ca sta a mmiez”u larghe ìi S.Cuòsemo e Daziane…Ron Peppì, che nne facite ‘u palazzo riale, vicino a cchillo d’u marchese. Ih, che lusso! Ron Peppì, sott”u palazzo ce sta ‘na statua ca se chiama Atone e Vènnera, don Peppì, è tutt’nu piezzo ‘i marmaro, riceno ca l’ha fatta nu ‘Ntonio ‘i Canova…”
“Uéh, uéh, Vicié, sta arrivanno ‘a primma carrozza. Vire nu poco chi scenne.”
Dalla carrozze scendono quattro preti.
“Don Peppì i’ ne conosco sultant’uno, è chillu llà, ‘u verite, ‘u cchiù giovane, se chiama ron Giuseppe Cestari, era tanto amico ‘i ron Gaitane…Sta venendo n’ata carrozza…”
“Viciè, e chist’ate chi so’? Uh, Viciè ce sta pure ‘na signora!”
“Ah, ron Peppì, chest’è a Pimentelle. E’ ‘na puitesse, e chillu vecchio è ‘o maestro suje, ‘ u professore Campilonco.”
Nel frattempo gli arrivi s’intensificano, diventa impossibile seguire tutte le persone che scendono dalle carrozze e c’è da scommettere che a Napoli non ne sia rimasta una.
“Vicié, e chistu prèvete zuoppo chi è?, quant’è brutto!…”
“Ron Peppì, chist’è Rocates, è nu prèvete calabbrese. Chist’è ‘ u cap”i tutt’a massunaria”.
E ancora per un pezzo, continuarono ad arrivare, dame, sacerdoti e professori dell’Università e don Saverio li conosceva tutti, e tutti li riceveva tra inchini, salamelecchi e baciamani. Il sacrato e la stessa chiesa sembravano più il «foyer» del teatro di S. Carlo che un luogo sacro.
E arrivarono ancora, il «duchino» Ascanio Filomarino col fratello Clemente, il prof. Avv. Mario Pagano; mons. Michele Natale; mons. Bernardo della Torre; il prof. Nicola Pacifico; il sac. Marcello Eusebio Scotti, autore del Catechismo nautico (1788); il professore di matematica Nicola Fiorentino; l’avvocato dei pescatori di corallo torresi, avvocato Luigi Serio; il duca Ettore Carafa d’Andria; il segretario dell’Accademia delle Scienze, dottore Michele Sarcone. Questi durante l’epidemia di colera del 1764, nei pressi della chiesa di S. Angelo a Nido, aveva sonoramente schiaffeggiato il celebre medico Domenico Cotugno. Anche se non c’erano tutti, basta pensare che soltanto l’Accademia delle Scienze di cui faceva parte il De Bottis, era formata da duecentonovantuno professori. Parecchi sacerdoti (erano abati senza abbazia) avanzavano con aria austera, recando il bastoncino. Era quel «bastoncino» a cui volle alludere il cardinale Sersale, dopo l’esame sostenuto dal giovane Vincenzo per la sua ammissione in seminario, nell’ormai lontano 1765. L’oggetto di cui parliamo era un alto segno di distinzione, usato dai nobili del re. Era un bastone sottile e lungo che arrivava all’altezza della testa con un pomo all’estremità superiore, guarnito con dei nastri, come quello del «pazzariello» infatti quest’ultimo lo si vede ancora in giro vestito alla maniera del Settecento.
Per completare il «quadro», occorre ancora qualche ritocco, con le parrucche incipriate di fresco, e donna Eleonora in crinolina, che da cinque anni viveva separata dal marito, mentre civettava coi poeti. Diciamolo pure, l’ambiente doveva essere abbastanza antipatico.
In quest’ atmosfera da ricevimento mondano (altro che funerale) c’è da immaginare lo stato d’animo di don Vincenzo.
Durante il solenne rito funebre con accompagnamento a grande orchestra, egli dovette pregare caldamente, non tanto per l’anima di don Gaetano, che in fondo era stato un sacerdote esemplare, ma quanto per tutti gli intervenuti. Egli già presentiva la bufera che si sarebbe scatenata da lì a qualche anno, le grandi sofferenze che si darebbero abbattute sulla Chiesa cattolica, non esclusa l’incarcerazione del Pontefice. Egli, come vedremo, se ne ricorderà al momento opportuno.
Quelle teste calde dovettero impressionarlo non poco, specialmente durante l’orazione di don Saverio Loffredo, quando attraverso la voce stentorea dell’oratore, udì rimbombare, non i nomi di Gesù e di Maria, ma quelli di Cartesio, di Newton, di Leibniz, di Buffon, di Bergman.
Il frammassone don Saverio Loffredo s’era levata ‘a capezza.
L’inizio di una delle più grandi eruzioni della storia del Vesuvio
Il 15 giugno del 1794 ricorreva la festa della SS.Trinità, giornata particolarmente cara a don Vincenzo: gli ricordava la sua prima Messa celebrata nella chiesa di Santa Croce nel 1775, proprio nel giorno della detta festa.
La giornata domenicale trascorse serena e nulla faceva prevedere ciò che la Natura stava preparando ai danni di Torre del Greco.
Verso un’ora e un quarto di notte (ore 21,15 circa) i torresi avvertirono una leggera scossa di terremoto, ma non si allarmarono troppo: ne avevano avvertita un’altra il giovedì, ed era stata abbastanza più forte, e poi la «montagna» era così calma…
Poco più di un’ora dopo, si vide il cielo rosseggiare. Sulle vecchie formazioni del monte Somma, su cui sorse il Vesuvio nel 79 d.C., poco al disotto della «spianata» detta Piana delle Ginestre, in pochi minuti si aprirono undici bocche. Si trattò, in sostanza , di una fenditura verticale di 600 metri di lunghezza e larga trenta. Il Vesuvio aveva dato inizio ad una delle più grandi eruzioni della sua storia.
Il campanaro di Santa Croce, che era di guardia, prese a suonare a martello, aiutato da altra gente accorsa. Tra le campane ce n’era una, della quale ancora oggi sentiamo i rintocchi: è quella che dalla sua cella si affaccia su via Salvator Noto.
Le campane, come gli esseri umani, hanno anch’esse la data di nascita e i nomi di battesimo. La nostra, che superò la prova del fuoco, «era nata» a Napoli il 1753, nella fonderia di Nicola Astarita, e quando fu benedetta le imposero i nomi di Michele, Gennaro, Immacolata.
Per alcune ore si credette che la lava stesse dirigendosi verso Resina, e questo fece perdere del tempo prezioso, perché si sarebbero salvate molte cose. Solo alle prime luci dell’alba del giorno 16, fu constatato che la lava era giunta alla contrada Tironi e avanzava inesorabilmente su Torre del Greco.
Il fianco destro del torrente di fuoco, avanzò più speditamente, data la mancanza di ostacoli (la lava vulcanica davanti agli ostacoli si ferma per qualche tempo e poi riprende il cammino) e alle ore 7,15, dopo di aver travolto la Porta di Capo Torre e la chiesetta di Santa Maria del Principio, per scarso flusso, si fermò a poca distanza dal mare.
Alla stessa ora, quando l’orologio della chiesa di Santa croce Croce aveva appena suonato i rintocchi delle 7,15, il grosso dell’enorme massa di lava premeva sul fianco della chiesa. Dopo alcuni minuti del sacro edificio, non esisteva più alcuna traccia, mentre il campanile resistette.
E’ bene precisare che Torre del Greco non fu distrutta nella NOTTE del 15 giugno, come finora hanno scritto molti storici torresi, ma nel GIORNO 16 giugno. L’errore scaturì oltre che dalla pessima descrizione tramandataci, anche dall’epigrafe murata sull’architrave della porta principale della nuova chiesa di S.Croce, dato che l’antica non fu distrutta il XVII. KAL. JUL. (15 giugno), ma il XVI. KAL. JUL.(16 giugno).
Lo stesso dicasi per la lapide murata nel campanile, poiché anche se l’eruzione ebbe inizio il 15 giugno (e nella storia si segna sempre la data d’inizio), il campanile resistette immoto il giorno dopo: 16 giugno.
Nella storia, l’ordine cronologico dei fatti accaduti non può essere alterato sia pure per un solo minuto. Quindi non è pignoleria la nostra precisazione. E non è ancora finita:
Sulla porta della chiesa di S:M. di Portosalvo, ‘ncopp”a Scarpetta, nell’iscrizione di quella lapide, murata nel 1801, appena otto anni dopo l’eruzione, si riscontra un errore ben più grave, perché l’orrenda e ardente lava del Vesuvio giunse a quel punto, nelle prime ore del pomeriggio del 16 giugno 1794 (XVI Kal. Julias che corrisponde al 14 giugno. Stando all’epigrafe, la lava ardente sarebbe arrivata a quel punto, addirittura ventiquattro ore prima che l’eruzione si fosse verificata, e che, non ci stancheremo mai di ripeterlo, ebbe inizio la sera del 15 giugno 1794, intorno alle ore 22,30. Vogliate scusare la digressione.
I registi della parrocchia, salvati dalla distruzione, furono portati nella chiesa del Carmine che ebbe funziona di chiesa parrocchiale, e fin da quel giorno si pensò alla riedificazione della chiesa di S.Croce.
Progetto dell’ingegnere Ignazio Di Nardo ed inizio dei lavori per la ricostruzione della chiesa di Santa Croce
L’ingegnere Ignazio di Nardo che stava lavorando alla strada da Napoli a Torre Annunziata e aveva già tracciato la nuova via per collegare Capo Torre con Via Episcopale e che fu completamente invasa dalla lava, ebbe l’incarico di progettare la nuova chiesa.
Il Di Nardo lavorò a lungo a Torre, perché, oltre alla chiesa di S.Croce, riedificò le chiese dell’Assunta, di S.Maria del Principio e adattò quelle di S.Michele e di S.Maria delle Grazie, dimezzandole in altezza. Inoltre sistemò tutte le strade della città collegandole e raccordando i vari livelli con un’infinità di scale e veramente fede dei miracolo. Di lui torneremo a parlare.
Abbiamo già detto prima che don Vincenzo Romano, quando era in seminario al Largo dei Gerolamini, dovette restare ammirato di quel bellissimo tempio, ed ecco la prova che lui, soltanto lui, suggerì al progettista Di Nardo, sia lo stile architettonico che la grandezza della nuova chiesa.
Fu ampliata l’area, spostando la strada Falanga (il nome non ha nulla a che vedere con quello del vecchio parroco di S.Croce), ed ecco anche la ragione per la quale non è più in asse con la strada dei Cappuccini. Invece di ricostruire la chiesa con la facciata principale rivolta verso Torre Annunziata, come l’antica, la orientano con fronte rivolto al mare.
A poco più di un anno e sei mesi dalla distruzione, ebbero inizio i lavori per la ricostruzione.
Il 1° gennaio 1796, dalla chiesa del Carmine si mosse una processione con alla testa il Crocifisso, e invece dei ceri la gente del popolo recava in mano o sulle spalle gli attrezzi occorrenti per il lavoro.
Scrive mons. Garofano:
L’avvio fu dato da un fervoroso discorso di Don Vincenzo Romano: toccò a lui dare un tono e un contenuto spirituale a quella impresa che vedeva impegnati braccio e cuore e che, senza la minima esagerazione, può davvero dirsi gloriosa.
E gloriosa fu, anche per i tempi che correvano.
Le idee giansenistiche e massoniche sfociate nel più acceso giacobinismo. La Repubblica partenopea
Poco più di un anno prima che iniziassero i lavori, il 18 ottobre 1794 a Napoli erano stati afforcati tre giovani, Emanuele De Deo, Vincenzo Vitaliani e Vincenzo Galiani.
Le idee giansenistiche e massoniche erano sfociate nel più acceso giacobinismo, proprio da parte di tutti quegli abati col «bastoncino» che erano intervenuti al funerale di don Gaetano De Bottis, anche se qualcuno se la squagliò, come fece il più acceso di tutti, l’abate Jerogades.
Ai sovrani di Napoli non piacevano più i giansenisti e i massoni. Li avevano incoraggiati e protetti finchè si trattò di non pagare più la chinea al papa e di cacciare i Gesuiti dal Regno, come aveva ordinato Carlo III di Spagna con il patto di famiglia. Specialmente la regina Maria Carolina, la grande protettrice della massoneria, che, «visto» morire la sorella Maria Antonietta e il cognato Luigi XVI, sotto la ghigliottina, aveva cambiato idea e voleva vedere ‘e casecavalle appise…
Aveva visto i primi tre, e ne vedrà ancora. Il macello durerà un ventennio, quasi tutto l’arco di tempo che occorrerà per costruire la chiesa.
Il 22 dicembre 1798 il re scappò da Napoli veleggiando alla volta di Palermo. I Francesi erano alle porte: entrarono in Napoli esattamente un mese dopo, il 22 gennaio 1799.
Un mese di saccheggi e distruzioni. La plebaglia (non il popolo) si diede ad ogni sorta di violenza, con il pretesto di combattere i giacobini. Naturalmente i giacumini erano tutti coloro che possedevano beni di qualsiasi natura specialmente se di grande valore per farne bottino.
I primi ad essere massacrati furono Ascanio e Clemente Filomarino, il primo noto per i suoi studi matematici e fisici e il secondo per quelli letterari; entrambi erano allievi di Gaetano De Bottis.
Il palazzo venne letteralmente spogliato di tutte le opere d’arte e dei ricchissimi arredi e poi dato alle fiamme. I due fratelli uccisi e i loro corpi bruciati. Era il 19 gennaio 1799.
A questo punto però è bene lasciare Napoli ed interessarci di ciò che avvenne a Torre del Greco durante la Repubblica Partenopea.
Don Saverio Loffredo e l’albero della libertà
Stando alle favole raccontate da canonico don Domenico Torrese, su la scorta dei documenti e di tradizioni domestiche (!!!) e riportate poi dal Di Donna (L’Università ecc. pag. 387) e quindi copiate da altri, don Saverio Loffredo fu obbligato dalle autorità repubblicane a pronunziare il discorsetto sotto l’albero della libertà innalzato al Largo del Carmine. Anzi qualcuno scrive addirittura che prima del Loffredo era stato designato don Vincenzo Romano. Nulla di vero.
La verità è sempre una soltanto, e in questo caso è la seguente.
Il canonico don Saverio Loffredo, come il De Bottis, era un prete da dimenticare. Troppo dotto per dimenticarlo completamente; troppo giansenista e giacobino per farlo conoscere meglio. Basta pensare che di quest’uomo, così noto ai suoi tempi, non si conosce né la data di nascita, né, almeno, quella di morte. Il tempo però è galantuomo più di certi storici e ci ha fatto conoscere tante cose deliberatamente tenute celate solo per stupidi pregiudizi che, del resto, non intaccano minimamente la reputazione del clero torrese di quei tempi.
Don Saverio Loffredo era il massimo esponente Repubblicano a Torre, per cui spettava a lui pronunziare il discorso sotto l’albero, e don Saverio, eloquente oratore e fervente giacobino, ci andò volentieri e pieno di entusiasmo. Egli aderì alla Repubblica come tanti sacerdoti come lui, tanti vescovi e perfino frati di diversi ordini religiosi che non staremo a riportare, perché i loro nomi fanno parte della Storia.
Signò, ‘npennimmo chi t’ha traduto,
Priévete, muònace e cavaliere!
Non ci stancheremo mai di consigliare agli studiosi della materia di andarci piano con i testi dei fratelli Castaldi e di Vincenzo Di Donna, poiché da questi sono venuti gli «infortuni» a tutti coloro che vi hanno attinto e riportato le notizie ritenendole per buone.
In un famigerato «documento quinto» (L’Università ecc., pag. 384) il Di Donna ci fa sapere che
…venuta l’armata cristiana e propriamente ai 18 maggio il supplicante Daniele Torrese e compagni si accinsero per dissotterrare le bombarde ed imbarcarle e condurle all’Eminentissimo Ruffo.
Con queste che il Di Donna, pur riportandole, a solo titolo di curiosità, avrebbe dovuto annotare con le debite precisioni. Non facendolo ha indotto in errore perfino qualche autore illustre e colto.
Non è vero per niente che ai 18 maggio era venuta l’armata cristiana e tanto meno «l’eminentissimo Ruffo».
Precisamente il cardinale Fabrizio Ruffo, il 18 maggio, si trovava ad Altamura nelle Puglie. Partì da questa città il 24 maggio. Il 26 era a Poggio Ursino; il 27 a Spinazzola; il 28 a Venosa; il 29 a Melfi; il 31 ad Ascoli Satriano; il 2 giugno al Ponte di Bovino; il 3 ad Ariano Irpino, da dove partì il giorno 7; l’11 giugno era a Nola e, finalmente, il 13 giugno, alle ore 23 circa, arrivo a San Giovannea Peduccio, sfociando dalla Via dello Sperone, con tutta l’armata cristiana. E quindi non passarono per Torre del Greco.
Nello stesso «documento quinto» (L’Università ecc., pag. 386) si attesta che:
Vincenzo Magliulo, Giacomo Accardo e Francesco Gargiulo con altri loro compagni zelanti Realisti… dando la caccia agli Giacobini forestieri per cotesti luoghi dispersi e scorrendo per la campagna, s’imbatterono nel Generale Schipanti stravestito ed errante per questi luoghi, per trovare qualche scampo a salvarsi, e lo arrestarono e il condussero, secondo esso chiedeva, agl’ Inglesi.
E nemmeno questo è vero. Sentiamo invece che dice l’inviato speciale della regina Maria Carolina, il padre Antonio Cimbalo, che era al seguito dell’armata cristiana e del cardinale Ruffo.
Così passata la notte del giorno 13, nel dì seguente si spedì una colonna della nostra truppa accampata al Ponte (della Maddalena) per attaccare e distruggere le forze de’ Giacobini della Torre Annunziata, consistenti in mille e cinquecento uomini circa, armati sotto il comando di un certo Schipani, siccome felicemente riuscì, restando, al comparir de’ Russi, deu Calabresi, e di due compagnie di granatieri comandati dal prode Colonnello D. Scipione la Marra, altri uccisi, altri dispersi, ed i rimanenti prigionieri, una con la fuga del duce che li guidava, il quale non molto tempo dopo, travestito, fu anche egli preso nelle montagne di Sorrento.
Nemmeno è vero che il cardinale Ruffo, nella sua marcia su Napoli, avanzò lungo la costa tirrenica; egli seguì un itinerario che sarà rispettato un secolo e mezzo dopo, dalla VIII armata britannica, nel 1943. Anche i «culturali» della RAI-TV, nello sceneggiato «Luisa Sanfelice», lo fanno arrivare un paio di volte a…Salerno: ‘O cardinale Ruffo è arrivat’a Saliéeerno!
Vero è, invece, che un gruppo di insorgenti, cioè realisti, partiti dall’agro-nocerino presero alle spalle gli uomini di Schipani e, a operazione compiuta, proseguirono per Napoli, passando per Torre del Greco, dove assistettero al taglio dell’«infame albero della Libertà» quando il canonico torrese Saverio Loffredo già si era seppellito vivo nella cripta dell’Oratorio dell’Assunta.
Dalla Rassegna storica del Risorgimento – anno XXI, 1934, fasc. I, pag. 142, riportiamo una canzone di guerra, cantata nella TORRE DEL GRECO nel tempo in cui si recise l’albero.
La canzone fu trovata nelle carte di un canonico di Cava dei Tirreni, un certo Pagano, che a sua volta la ebbe da un compaesano reduce dalla spedizione contro Torre. Occorre precisare che si tratta di Torre Annunziata dove si era asserragliato Giuseppe Schipani.
Ed ecco la canzone cantata a Torre del Greco:
Or che troncato è l’albero
Sire ritorna al Trono
Lo scettro e l’ostro (1) sono
Già preparati a te.
La libertà chimerica
Pèra tra foco e sangue
Muoia il veleno e l’angue (2)
Muoia la libertà.
Uscite o verginelli
Con palme o con oliva
Gridate e viva viva
Il nostro amato Re.
Sicuro lui nel Campo
Il nostro onor mantiene
Che a liberar ci viene
Da questa schiavitù.
E vivano i Calabresi
Che quando il Franco venne
Non vollero l’antenne
Alzar di libertà.
Della Sicilia viva
Il popolo fedele
Che subito ha la vele
Spiegate a nostro pro.
Ai nostri pié’ trafitti
Cadano i Giacobini
E i Franchi Cisalpini
Muoiano tutti or or.
Or che troncato è l’albero
Ognun cantando intona
Evviva la Corona
De Ferdinando Re.
E vivano gli Inglesi
Per mare e pur per terra
Che vennero a far guerra
Conto la nazion.
Finis
Amico di cuore
Filippo di Marino
(1) Il manto di velluto e di ermellino.
(2) Serpente anfibio dal corpo squamato
Dopo la firma, segue un’altra quartina racchiusa in parentesi. Forse il canonico Pagano dovette comporla ed aggiungerla qualche tempo dopo. La riportiamo per esteso: (Dell’empio franco in mano/ Quanti affanni e pene / Tra barbare catene / A noi toccò soffrir).
Abbiamo lasciato il canonico Saverio Loffredo murato vivo nella cripta dell’Assunta in preda al panico. La sua colpa era quella di aver pronunziato la concione sotto l’albero della libertà, quattro o cinque mesi prima.
Sull’episodio ci hanno raccontato un sacco di balle inventate di sana pianta, prima fra tutte quella del contadino che trovandosi a passare mentre innalzavano l’albero avrebbe detto: Non l’avete impeciato? durerà poco. L’allusione è troppo sottile per essere stata espressa da un contadino, e quindi è stata inventata.
Per quanto riguarda le idee del Loffredo, ora che lo abbiamo conosciuto a fondo, non vi sono più dubbi: anch’egli era stato coinvolto nella rivoluzione, come abbiamo detto prima, e il discorso sotto l’albero non lo pronunziò perché costretto. E nemmeno è vero che ebbe salva la vita per il perdono della regina Carolina, perché questa era a Palermo; da lì andrà a Vienna e tornerà a Napoli soltanto il 17 agosto del 1801.
Il povero don Saverio Loffredo temeva più la delazione dei facinorosi che, per rendere un servizio alla Corona, si moltiplicavano nella speranza di ottenere dal re, premi, onori e prebende, come li supplicanti del documento quinto, riportato dal Di Donna, e pieno zeppo di bugie.
Don Saverio si era accorto anche che molti giacobini erano di colpo diventati realisti. Per farsene un’idea, basta pensare alla notte del 25 luglio del 1943 quando, in poche ore e a cose fatte, cambiò idea l’intero popolo italiano.
Carlo de Nicola, nel suo Diario Napoletano (dicembre 1798 – dicembre 1800) in una nota a margine, mentre accadevano i fatti, così scrisse:
Quello che mi addolora, è il vedere questo popolo assassino e briacone che si fa merito di essere stato egli solo fedele al Re, quando noi, che siamo stati in mezzo a questa orrenda catastrofe, sappiamo che quei stessi che andavano gridando viva il Re, gridavano viva la Libertà attorno a Championnet allorché andò all’arcivescovado. Quei stessi che vanno cantando.
Maistà chi t’ha traduto,
Muònece, priévete e cavaliere,
Te vulevano priggiuniere…
…indavano cantando l’inno Marsigliese, e la così detta Carmagnola. Quei stessi che corsero a tagliare gli erbori, concorsero a far la feste quando si piantarono. Quei stessi che tanto si vantavano attaccati ai Sovrani, assordivano le nostre orecchie gridando per le strade la fuga del Tiranno, la nova cantata de Carolina, La Libertà de li muònece e deli priévete, e simili scelleraggini.
Eppure a Torre del Greco, per quanto si conosce, non si verificarono delazioni, vendette, assassini e cose del genere. Don Vincenzo Romano vegliava sui cittadini, su tutti, fossero realisti o giacobini.
Poche erano le sue parole: silenzio, concordia e perdono, ma molte erano le preghiere al Signore affinché cessasse la carneficina che in quei giorni insanguinava la Capitale. Egli dovette pregare, con uguale fervore, anche per quella testa calda di don Saverio che egli sapeva (e chi più di lui?) nascosto nell’Oratorio dell’Assunta.
Nella sola giornata del 15 giugno, a Procida, vennero impiccati tre sacerdoti : il vicario curato dell’isola, don Nicola Lubrano, don Antonio Scialoia e don Antonio De Luca. La lunga serie continuò a Napoli.
Il 13 luglio, salì il patibolo il francescano Giuseppe Carlo Belloni di Vicenza;
il 20 agosto, mons. Michele Natale, vescovo di Vico Equense e il sacerdote don Nicola Pacifico di Napoli;
il 30 settembre, il padre crocifero Nicola de Meo di Napoli;
il 14 ottobre, il sacerdote don Nicola Palomba di Avigliano;
il 22 ottobre, il sacerdote don Gaetano Morgera di Forio d’Ischia;
il 31 ottobre, il sacerdote don Ignazio Falconieri di Lecce;
il 13 novembre, il benedettino Giuseppe Guardati di Sorrento;
il 7 dicembre, il sacerdote don Francesco Conforti di Napoli;
il 12 dicembre, il provinciale dei carmelitani, Michele Granata di Rionero;
il 4 gennaio 1800, il sacerdote don Marcello Eusebio Scotti di Napoli; quest’ultimo era certamente conosciuto da don Vincenzo Romano.
Lo Scotti, nel 1788, per la Stamperia Simoniaca, aveva pubblicato un’opera in due volumi dal lungo titolo Catechismo Nautico, ovvero dei particolari doveri della gente marittima, tratti principalmente dalla S. Bibbia e dalle massime fondamentali della Religione e che interessò anche i pescatori di corallo di Torre del Greco.
Marcello Eusebio Scotti, professore dell’Università, giansenista, nacque a Napoli il 9 lughlio del 1742. Vincenzo Cuoco nel suo Saggio Storico sulla Rivoluzione Napoletana così scrive di lui:
E’ difficile immaginare un cuore più evangelico. Egli era l’autore del Catechismo nautico, opera destinata all’istruzione de’ marinai dell’isola di Procida, sua patria, che meriterebbe di essere universale.
Pur la sua famiglia era originaria di Procida; lo Scotti nacque a Napoli, come abbiamo testé riferito.
E anche a costo di essere criticato dai culturali, vogliamo farvi conoscere un particolare curioso e nello stesso tempo commovente.
Don Marcello aveva insegnato il latino al giovinetto Raffaele Sacco, il futuro poeta napoletano che nella Piedigrotta del 1835 farà impazzire la gente con la sua canzone Te voglio bene assaie, la cui musica venne attribuita a Gaetano Donizetti, cosa questa che non fa certamente onore al grandissimo compositore bergamasco, perché la canzone è nu taluorno.
La famiglia Sacco usò tutti i mezzi, compreso quello finanziario, ma, purtroppo, non riuscì a salvare la vita al povero Marcello, mentre a perderlo e a farlo morire furono, non si crederebbe, gli stessi procidani. Anche mons. Bernardo Della Torre aveva fatto parte, come lo Scotti, della Commissione
Ecclesiastica nel governo repubblicano, eppure se la cavò molto bene. Arrestato per i proclami fatti durante la Repubblica, inoltrò domanda di grazia al re, che ancora sostava nelle acque di Napoli, acché S:M: gli consentisse di andare a piangere i suoi errori in qualche luogo lontano dalla capitale ( come fece l’abate Jerogades)
Il re disse che la richiesta di questo prelato lo aveva edificato e che desiderava pigliasse da lui esempio l’arcivescovo onde chiedesse ancor egli andar a piangere i suoi errori sopra Montevergine.
Il vecchio cardinale (arcivescovo di Napoli dal 1782) grande benefattore dei torresi e dello stesso clero della cittadina vesuviana, durante e dopo l’eruzione del 1794, seguì il consiglio del re, e se ne andò in «volontario» esilio a Montevergine, dove morì dimenticato da tutti, il 31 dicembre 1801.
Mons. Bernardo della Torre, vescovo di Lettere e Gragnano, giansenista e vecchio massone, preferì, invece, mettere molte miglia di distanza, tra lui e la capitale del regno e se ne andò a Roma. Tornerà al seguito dei Bonaparte, e dal suo comportamento vedremo poi che non andò a piangere per niente «i suoi errori»… Non ci siamo dimenticati del canonico Saverio Loffredo.
Le non allegre notizie che arrivavano da Napoli, arrivavano alle orecchie di don Vincenzo Romano e poi a quelle di don Saverio, affranto e tremante nel suo nascondiglio. A farlo uscire da quell’anfratto, non fu la regina Carolina ma fu un altro vescovo molto diverso da mons. Della Torre. Fu mons. Luigi Ludovisi, vescovo di Policastro, visitatore del Regno, nominato dal re e che aveva giurisdizione su tre province del regno: Terra di Lavoro (Napoli); Principato Citra (Salerno) e Principato Ultra (Avellino e Benevento).
Questo santo uomo, attraverso una fitta corrispondenza fece capire al re, che intanto se n’era andato di nuovo a Palermo, che l’unica cosa che restava da fare era quella di porre fine alle delazioni, alle accuse e agli arresti che colpivano la migliore gente e quella più proba e quieta dei rispettivi paesi. Tanto insistette nelle sue esortazioni che alla fine, S.M. con Real carta, da Palermo in data 21 corrente (settembre 1799) si è uniformato, ed ha ordinato che non si molestassero, ma solo si prendesse notizia della loro condotta (cfr. De Nicola «Diario»).
Solo così il canonico Saverio Loffredo potette uscire dal suo nascondiglio. Egli uscì veramente pentito: aveva visto attraverso le sue preghiere l’intercessione della Vergine del Principio.
Il canonico Loffredo, oltre alla protezione della Vergine, ebbe anche la fortuna di trovarsi dietro le linee del cardinale Ruffo, il quale accampato al Ponte della Maddalena, salvò la vita a molti rei sospetti, tra i quali tanti sacerdoti e nobili, compreso il marchese Bèrio, tutti prigionieri nelle sue mani e ammassati nell’enorme edificio dei Granili.
E c’era pure un giovanotto calabrese, quasi un ragazzo, appena sedicenne. Lo avevano preso a Ponticelli da dove cercava di entrare a Napoli, dopo di aver combattuto contro i sanfedisti del Ruffo, sotto il comando di Giuseppe Schipani. Il giovanotto si chiamava Guglielmo Pepe.
Scrive il sacerdote torrese Giuseppe Liguori (Attraverso la storie e la tradizione, 1925) che don Saverio
grato si affrettò a sciogliere il suo voto, recando egli stesso ai piedi della Madonna, una tavoletta votiva, la quale SARA’ CUSTODITA GELOSAMENTE, perché narri ai fedeli la potenza della Vergine del Principio in due distici scritti dall’insigne letterato sulla medesima tavoletta.
Un altro sacerdote, Camillo Balzano (Il Venerabile ecc., 1932, pag. 149) ci fa sapere ancora, che
gli elegantissimi versi furono scritti da don Saverio Loffredo… col proprio sangue. Ed ecco i versi:
Alma Dei Mater, solvit Tibi vota sacerdos,
Et grates sempre. Te Duce, sospes agit
Nunc rogat, haec pendens votiva tabella, cruorem.
A Te servatum fundere, Virgo, Tibi.
«Eccelsa Madre di Dio, un sacerdote viene a Te per sciogliere il voto e, da te guidato, mostrare sempre la sua gratitudine. Ora dalla votiva tavoletta, qui sospesa, egli prega concedergli di consumare per Te la vita che gli hai salvata ». (G. Liguori op. cit., pag. 125). Infatti sulla tavoletta votiva si vedono, a sinistra, l’immagine della Vergine del Principio e, a destra, la figura del canonico Loffredo sull’inginocchiatoio in atto di preghiera.
Gli ex voto dei naviganti torresi… dove sono?!!!
Abbiamo scritto si vedono, ma, ahinoi!, dobbiamo correggere subito in «si vedevano»: la tavoletta è scomparsa dalla chiesetta in cui doveva essere custodita gelosamente . E così, una testimonianza di fede, un cimelio di un certo valore storico per Torre del Greco, non esiste più, come non esistono più le centinaia di ex voto dei naviganti torresi scampati ai naufraghi. Erano nella chiesa del Carmine a Torre del Greco. Oggi dove sono?!!! Riproduciamo la tavoletta da un piccolo e pessimo cliché del libro del Liguori, e se l’immagine non è nitida, pazienza, è sempre meglio che niente.
Circa l’inizio dei lavori per la ricostruzione della chiesa di Santa Croce
(…) c’è da notare una disparità di date che non può essere attribuita a refusi tipografici.
«La pietra fondamentale di sì vasto edificio fu posta il 5 giugno del 1796, e precisamente due anni meno due giorni da che fu distrutto l’antica. In detto giorno il Ven. Vincenzo, circondato dal clero, dai pubblici amministratori, dal popolo numerosissimo, uscì processionalmente dalla Chiesa del carmine, a porre e benedire la prima pietra del novello tempio di S. Croce »
(C. Balzano « Il Ven. Vincenzo Romano» -1932, pagg. 67-68).
«Dopo aver sgombrata la nuova area della chiesa, il 1° gennaio del 1795 ebbero inizio i lavori. Clero e popolo si recarono processionalmente dalla Chiesa del Carmine la parrocchia provvisoria al sito di Santa Croce» (S. Garofalo «Un parroco sugli altari»-1963, pag. 59.
Circa l’anno (1796) ha ragione il Balzano, poiché il Garofalo, nella sua pregiatissima opera citata, nella pagina precedente, scrive che il progetto dopo alcune modifiche, fu approvato il 24 giugno 1795, e quindi non si poteva porre la prima pietra sei mesi prima dell’approvazione del progetto. Questo particolare dovette sfuggire al pur esattissimo Garofalo. Ed ecco che per questi, si può parlare di refuso, ma per Balzano, no. Egli scrive 5 giugno 1796. La data esatta è: 1°gennaio 1796.
La chiesa sorgeva maestosa. L’ingegnere Di Nardo, interpretando il volere di don Vincenzo, l’aveva progettata sul modello di quella dei Gerolamini , specialmente la parte interna e il primo ordine della facciata, se si pensa che sulle due porte laterali c’erano i finestroni, proprio come sulla facciata della chiesa napoletana. Detti finestroni furono murati dopo il bradisismo per l’eruzione del 1861.
Il terremoto del 23 novembre 1980, ha messo in evidenza le tracce preesistenti.
Per la costruzione, oltre alle pietre vesuviane, si usavano anche quelle di tufo e i mattoni d’Ischia. Scrive mons. Salvatore Garofano, che ogni domenica una processione, guidata da Don Vincenzo scendeva alla spiaggia per trasportare a spalla i materiali, verso il cantiere dell’erigenda chiesa, primo fra tutti l’Economo Vincenzo Romano che recava sulle spalle, allora robuste (45 d’età) la sua porzione di pietre o di mattoni.
Quando eravamo ragazzi c’era ancora in voga a Torre una specie di cantilena che cantavamo per incitare gli altri compagni a non stare indietro e avanzare il passo. Certamente risaliva a quei tempi.
‘A vascio ‘a marina carréeano ‘e prete,
e tutt”e fesse vanno arrete.
Istituzione della collegiata di Santa Croce
In quei tempi, per soccorrere il clero torrese ridotto in povertà per l’eruzione, l’arcivescovo Giuseppe Zurlo istituì la Collegiata di Santa Croce, composta di venticinque membri, dodici canonici e dodici ebdomadari, più il preposito curato che la presiedeva di diritto.
La collegiata venne solennemente inaugurata alla presenza dell’arcivescovo , la domenica del 16 ottobre 1796 nella chiesa del Carmine.
Per il soccorso economico l’arcivescovo aveva depositato sulla Dogana del sale di Foggia, la non indifferente somma di 9 ducati, la cui rendita serviva a pagare le prebende ai componenti la collegiata. Alla cerimonia per l’insediamento venne data la massima solennità. L’avvenimento è riportato dal Di Donna, da un manoscritto raro, prestatogli dal rev. Ulrico Ascione. Ne sunteggiamo la parte essenziale. Nella chiesa dei PP. Carmelitani prese possesso la nuova Collegiata, sotto il titolo di Santa Croce della Torre del Greco, con dotazione di Prebende.
I membri della istituendo Collegiata, che il Di Donna enumera in 27, si vestirono nella chiesa del Purgatorio e seguiti dal cardinale, proveniente in carrozza dal vicino palazzo arcivescovile, si recarono in processione nella detta chiesa del Carmine, dove avvenne l’insediamento.
La chiesa venne magnificamente addobbata. Fu allestito il Trono Pontificale per l’Eminentissimo Cardinale Arcivescovo, e sul frontespizio della chiesa, fra i ritratti delle loro Maestà il Re e la Regina e del Fondatore Arcivescovo, contornati di festoni, nel fondo di un gran mante reale si leggeva la seguente iscrizione.
D.O.M. / FERDINANDO IIII / OPTIMO REGUM / PATRI PATRIAE / QUAM E CINERIBUS EXCITAVIT / ET / JOS. M. CARD. CAPYCIO ZURLO / EIUSDEM AUEMULO GLORIAE./ INSIGNIS – CANONICOR – COLLEG. / INSTAURATORIS – TROPAEUM / GRATI HERCULANENSES CIVES.
I due canonici in più oltre il preposito curato, vanno ricercati nei due economi della stessa collegiata: uno nominato dall’Università (il Municipio) e l’altro nominato dal padronato della chiesa di S. Croce, patronato fondato a suo tempo da don Ignazio Sorrentino ( per ulteriori dettagli, cons.re l’opera di Di Donna «L’Università ecc.» pagg. 309 e 310).
Il ritratto del cardinale Zurlo, messo per l’occasione sulla facciata della chiesa del Carmine, è tuttora conservato nella sagrestia della chiesa di S:Croce. Il quadro, assai più bello di quello esistente presso l’Archivio storico diocesano, reca la data dell’anno in cui avvenne la fondazione della Collegiata: MDCCIVC, cioè MDCCXCVI (1796).
I protestatari
Appena tre giorni dopo, il 19 ottobre, il clero non collegiale – scrive mons. Salvatore Garofano – protestava contro la presunta illegittimità della Collegiata e dichiarava che i suoi componenti si erano da sé distaccati dal clero e costituitisi in corpo separato; per conseguenza, il clero non insignito si sarebbe organizzato indipendentemente, deliberando all’unanimità di non mai associarsi con i cosiddetti Canonici ed Ebdomadari in nessuna funzione, sia in chiesa che fuori chiesa (op. cit., pag. 70).
I protestatari, circa la metà del numerosissimo clero torrese, sostenevano che erano stati chiamati a far parte della collegiata preti che stentavano a leggere il Vangelo, senza capirne il significato.
La lite durò per anni e anni, e il Garofano afferma che nel 1879 non era ancora sopita. Quindi il «problema», come si direbbe oggi, assillò don Vincenzo per tutto il resto della sua vita, e quando vedrà approssimarsi la fine dei suoi giorni, il 30 novembre 1830, scriverà una lettera ai «Direttissimi Fratelli», per raccomandare ancora una volta di conservare il preziosissimo tesoro della carità fraterna, ma senza alcun risultato.
Don Antonio Luisi (1774 – 1841)
Il più acceso protestatorio fu certamente don Antonio Luisi (1771 – 1841), che, attraverso epigrammi e motti, non cessò mai di scagliare frecce ai membri della collegiata. Uno di questi motti, ancora di attualità a Torre, si usa rivolgerlo in tono scherzoso a chiunque viene eletto o promosso a più alto incarico di qualsiasi genere, ed è il seguente:
‘U cardinale, ‘i priévete cchiù fesse ‘i ffa canuònece.
Però, né il dottissimo Antonio Luisi, né tutti gli altri sacerdoti che sapevano leggere il Vangelo, vollero capire che la collegiata non era stata istituita dal cardinale Zurlo per onorare i più illustri e colti sacerdoti come loro, magari ricchi, ma per soccorrere i più poveri, che per l’eruzione erano rimasti senza casa e privati del sacro patrimonio, con assegnare loro un sussidio detto «prebenda». Ecco perché don Vincenzo dal suo letto di dolore invocava la carità fraterna verso i più sfortunati.
Ed egli usò la massima discrezione, non palesando mai le ragioni per non umiliare ulteriormente i componenti della collegiata. Era talmente elevata la sua nobiltà d’animo che, pur essendo umile e povero egli stesso, non volle mai far trasparire l’indigenza altrui, coprendole sempre con tangibili e segreti aiuti.
La nomina di Don Vincenzo Romano a preposito curato
Proprio mentre infuriava la reazione borbonica, spietata e sanguinaria, nel settembre del 1799, quasi novantenne, nella sua casa di campagna, si spegneva il vecchio don Gennaro Falanga. Era stato parroco e poi preposito curato per ben cinquantotto anni.
Il 27 dello stesso mese i governatori laici della chiesa di S. Croce, avvalendosi del loro diritto di nomina – come giustamente scrive il Garofalo, e non come aveva scritto il pronipote del Beato, il sac. Giuseppe Romano, secondo il quale
Il governo laico di allora diceva di avere diritto di nominare e presentare all’Ordinario Diocesano il Preposito Curato –
All’unanimità segnalarono alla Curia arcivescovile il nome di Vincenzo Romano.
Don Giuseppe Romano scrisse pure (1881) che il prozio andò a prostrarsi ai piedi del cardinale supplicandolo di nominare un sacerdote più degno di lui e che l’Eminentissimo Porporato
Con tuono autorevole di voce proruppe: Ebbene? Che cosa avete promessa nella S. Ordinazione
Al proprio Vescovo? Eminentissimo – rispose Vincenzo – Obbedienza – Dunque – replicò l’Eminentissimo Arcivescovo – Obbedite.
Certamente non si tratta dell’arcivescovo, perché il vecchio cardinale Zurlo, fin dal 5 agosto, aveva lasciato l’Arcivescovado, dove morirà il 31 dicembre 1801, senza mai più tornare a Napoli, e data la sua tarda età, non poté nemmeno partecipare al Conclave di Venezia in cui, il 14 marzo 1800, venne eletto papa Pio VII.
Al cardinale Giuseppe Capace Zurlo, sulla Cattedra di S. Aspreno, seguì il napoletano Giovanni Vincenzo Manforte che fu arcivescovo di Napoli soltanto per sedici giorni. A questo successe il cardinale Luigi Ruffo Scilla.
Nel 1806 la grande mole della nuova chiesa di S. Croce era già stata completata e coperta in tutta la parte grezza, tanto che don Vincenzo volle benedirla, anche se occorrevano ancora anni ed anni per portare a termine la colossale opera.
L’abolizione del feudalismo. Entrata di Giuseppe Buonaparte a Napoli
Proprio all’inizio di quell’anno, altri sconvolgimenti politici dovevano funestare il regno di Napoli. Diciamo «funestare» per modi di dire, perché in fondo non ebbe nulla di funesto, anzi proprio quell’anno venne abolito il feudalesimo.
Alle prime avvisaglie del temporale il primo a scappare fu, come al solito, Ferdinando IV ( il suo motto era: fuimme ! fuimme!). Infatti il 24 gennaio s’imbarcò per Palermo, e l’11 febbraio s’imbarcò la regina.
Il 14 febbraio il generale Andrea Massena con la prima colonna di truppe francesi entrò in Napoli e il giorno dopo entrò il fratello di Napoleone, Giuseppe Buonaparte, acclamato entusiasticamente dal popolo napoletano.
O Francia, o Spagna
abbasta ca se magna.
Dietro l’esercito invasore rientrarono in Napoli parecchi giansenisti e massoni del 1799, tra i quali mons. Bernardo Della Torre. Era di ritorno da Roma, dove era andato a piangere i suoi errori.
Pur di non collaborare coi francesi, il cardinale Russo Scilla, con bolla del 23 marzo 1806, nominò suo vicario generale il Della Torre. Non aveva altra scelta fa fare: fu obbligato.
Per aver negato il giuramento di fedeltà al nuovo re Giuseppe Bonaparte, il Ruffo Scilla, il 26 maggio fu esiliato, e durante il viaggio verso il lungo esilio a Parigi, da Firenze in data 20 giugno, così scriveva al padre barnabita Francesco Saverio M.a Bianchi.
Sono stato obbligato a dare i miei poteri a Mons. Della Torre, vescovo di Gragnano e Lettere, e l’ho scelto a mio vicario (Ambrasi – Riformatori e ribelli a Napoli, pag. 252).
Ma il cardinale, in seguito, non dovette affatto pentirsi, avendo il Della Torre, durante l’intero decennio, difeso con tutti i mezzi gli interessi della Chiesa napoletana. Basti dire che il suo intervento riuscì a salvare la monumentale chiesa di S: Domenico Maggiore, che i francesi volevano destinare a…stalla per i cavalli del loro esercito invasore.
Anni prima, anche a Torre del Greco, sparuti giacobini locali (sono sempre coloro che aspettano la «liberazione» dagli eserciti stranieri) ironizzando sullo zelo di cui era animato don Vincenzo Romano nella riedificazione del tempio di S. Croce distrutto dalla lava vesuviana, usavano dire: costruisse pure la chiesa, sarebbe stata una buona stalla per le bestie dell’esercito francese che, intanto era entrato a Napoli il 22 gennaio 1799.
San Francesco Saverio M. Bianchi
Ci eravamo proposti di non parlare di miracoli, altri meglio di noi lo hanno già fatto, tuttavia vogliamo soffermarci sul Bianchi, quel santo della Chiesa napoletana, che fin dal 1857, figurava tra i Venerabili, con don Mariano Arciero e don Vincenzo Romano, come abbiamo già detto innanzi.
Egli insegnò lettere e filosofia a Napoli, ma era nato in Arpino il 2 dicembre 1743. Nella capitale esercitò una ammirevole apostolato per cui fu detto il S. Filippo Neri di Napoli.
Fu beatificato da papa Leone XIII l’8 settembre 1892 e canonizzato da papa Pio XII.
La sua festa ricorre nel giorno in cui avvenne la sua morte ( il 31 gennaio 1815), nello stesso giorno in cui si celebrava la festa di S. Ciro.
I suoi resti mortali sono riposti nella chiesa di S. Giuseppe delle Scalze in Napoli, alla salita Pontecorvo.
Fatta la presentazione, ecco il miracolo.
Padre Francesco Saverio si trovava a Torre del Greco nel Ritiro della Visitazione sito nelle immediate vicinanze del palazzo del cardinale, quando si verificò l’ERUZIONE DEL 12 AGOSTO 1805.
Eccettuato il brontolio continuo del vulcano, fu una delle eruzioni più tranquille e rapide. Uno dei rami di lava si presentò a ridosso del muro di cinta della villa del cardinale, e a quel punto si fermò per le preghiere del padre barnabita. Una lapida fatta murare dal cardinale Guglielmo Sanfelice nel 1893, ricorda ai posteri il prodigioso avvenimento.
Padre Giovan Battista Alfano (Epigrafia Vesuviana) e mons. Camillo Balzano (Torre del Greco nei ricordi classici, pag. 137), scambiarono quest’eruzione con quella avvenuta l’11 agosto 1804, esattamente un anno prima. La meticolosa puntualità del Vesuvio, ingannò i due insigni studiosi.
Scrive Salvatore Garofano (Un parroco sugli altari, pag. 143 n.) che
San Francesco Saverio M.Bianchi, intimo amico del Canonico torrese D. Pasquale Lombardo, si recò fin presso la lava a pregare, e si racconta che in altra occasione aveva dato al Romano una immagine della Ven. Maria Fratesca della Cinque piaghe e altre devozioni da gettare nella lava ardente.
Suor Maria Francesca, del terzo ordine francescano, ebbe per direttore spirituale proprio Francesco Saverio Bianchi, e questa santa donna solea ripetere spesso:
Due sono i Filippi Santi, uno nero, ed un altro bianco, alludendo ai rispettivi cognomi.
S. Maria Francesca Vergine, fu battezzata nella chiesa parrocchiale di S. Matteo a Toledo, abitava al Vico Tre Re e morì nel 1791. La «carriera» celeste è stata rapida. Venerabile fin dalla morte fu beatificata da Gregorio XVI nel 1843 e canonizzata da Pio IX il 29 giugno 1867.
Questi santi vissuti ai tempi di don Vincenzo Romano e che, con S. Alfonso, gli furono tanto vicini, lasciano sperare bene in una prossima canonizzazione anche del nostro Beato.
Il «decennio francese»
Nel 1806, dicevamo, ebbe inizio il cosiddetto «decennio francese» che durerà fino al maggio del 1815. Regnò per primo Giuseppe «Napoleone» Bonaparte (30 marzo 1806 – 2 luglio 1808) e poi Gioacchino «Napoleone» Murat ( 30 marzo 1808 – 19 maggio 1815), ed anche questo periodo fu particolarmente triste per la Chiesa Napoletana, sacrificata e perseguitata con ogni sorte di angherie.
Il ministro di Polizia, Antonio Saliceti, inviò a Torre del Greco un uomo più feroce di lui, un certo monsieur Craisson. Questi – scrive Camillo Balzano –
Si portò dal parroco, per trarlo ai suoi disegni. Il Venerabile gli resistette su tutto il fronte, e quando si fu alle minacce, disse: – Quando si tratta della glori di Dio, ecco la mia vita, non temo nessuno.
Ed è da questo punto che due vite divennero parallele: quella di Pio VII e quella di Vincenzo Romano,
Anzi la risposta data da don Vincenzo al commissario francese, anticipa di tra anni quella data dal grande pontefice al generale Miollis nella notte tra il 5 e il 6 luglio del 1809.
Fin dal 10 giugno, il cannone di Castel S. Angelo, aveva dato l’annuncio che Roma era diventata città imperiale ( l’episodio è ricordato nel finale del primo atto della «Tosca» di Giacomo Puccini), e nell’istesso istante il tricolore francese garriva sullo stesso castello.
Pio VII (Giorgio Barnaba Chiaramonti, Cesena, 14 agosto 1742 – Roma, 20 agosto 1823) si chiuse nel palazzo Quirinale ed emanò la BOLLA «Quum memoranda illa die seconda februari Gallorum copiae» con la quale scomunicava Napoleone Bonaparte e pure i francesi.
Nella tarda serata del 5 luglio i francesi circondarono il Quirinale e nella notte, in tutta segretezza, per mezzo di lunghe scale a pioli, penetrarono nel palazzo. Il papa, accortosi di quanto stava avvenendo, si fece trovare nella sala delle udienze con i cardinali Pacca, Despuig e altri prelati, e al generale Miollis che era andato da lui per arrestarlo, così rispose:
L’imperatore potrà farci a pezzetti, ma non otterrà mai questo da noi.
Alludeva alla rinuncia temporale imposta da Napoleone.
Eppure quel papa mite e modesto, che non aveva nemici, dovette partire per l’esilio assieme al Cardinale Pacca, avendo in tasca, tutti e due, una lira e settantacinque centesimi. Viaggeremo all’apostolica – disse Pio VII.
Nei giorni seguenti per le vie di Roma apparvero dei cartelli coi versi dell’Alighieri:
Veggio………
E nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
Veggio rinnovellar l’aceto e ‘l fele.
(Purg. XX, 87-89)
Mentre questo avveniva a Roma, un umile parroco nella lontana Torre del Greco piangeva e pregava per la liberazione del pontefice. Pietro è in carcere – egli diceva tra le lacrime; certamente il suo pensiero correva al cardinale Ruffo Scilla, vescovo della sua diocesi, anch’egli esiliato, mentre sulla cattedra di S. Aspreno sedeva mons. Bernardo Della Torre, imposto dai francesi.
Nel frattempo, il 23 maggio 1808, Giuseppe Bonaparte aveva lasciato Napoli, chiamato dal fratello ad assumere il trono di Spagna, e il 6 settembre era giunto a Napoli il cognato Gioacchino Murat, impennacchiatissimo e acclamatissimo dalla popolazione che vedeva in lui il Rinaldo dell’opera dei pupi. Infatti il 5 ottobre riuscì, grazie anche a Giovanni Bausan, a cacciare gli inglesi dall’isola di Capri.
La sera stessa ad acclamare l’eroe al largo del Palazzo, in prima fila, in rappresentanza del clero napoletano c’era mons. Bernardo della Torre, vicario generale dell’Arcidiocesi, vecchio massone, giansenista e gallicano.
Il sole napoleonico di Austerliz, tramontato sulla Beresina, calava all’orizzonte anche in Europa, e prima ancora che abdicasse a Fontanebleau (11 aprile 1814) l’Imperatore dei francesi diede ordine di liberare il papa.
PIO VII, il 31 marzo era già a Bologna e dopo una sosta a Cesena, sua città natale, il 24 maggio faceva il suo ingresso trionfale a Roma.
Santo tripudio a Torre del Greco: Grandiosi festeggiamenti con la musica in chiesa affidata a un’orchestra
A questo punto diamo la parola al nostro amico carissimo mons. Salvatore Garofano.
Quando il Papa, tornò finalmente alla sua sede apostolica, sembrò che il Preposito fosse impazzito di gioia. Nonostante che a Napoli comandassero ancora i Francesi, mobilitò tutti i maggiorenti e il popolo di Torre per una festa senza eguali: la chiesa fu sfarzosamente apparate, la città illuminata per tre giorni di santo tripudio e per la prima ed ultima volta in vita sua permise che la musica in chiesa fosse affidata a un’orchestra ( op. cit., pag. 142 ).
Qui richiamiamo alla memoria del cortese lettore quel lontano 28 giugno del 1790, quando nella casa del Signore, nell’antico tempio distrutto dall’eruzione il 16 giugno del 1794, con la scusa del funerale a Gaetano de Bottis, si era svolta invece la più grande assemblea massonica, al suono di una grande orchestra venuta da Napoli, alla presenza di un pubblico che affollava la chiesa e che non era venuto per pregare per l’anima del defunto don Gaetano.
Il Preposito «impazzito» di gioia per il ritorno del papa, volle anch’egli l’orchestra, non per gli aristocratici, non per i preti col bastoncino, non per i letterati; ma per i suoi umili e fedeli filiani, in altre parole, per il popolo di Dio, ossequiente alla Chiesa di Roma. E forse fu quella l’unica volta che Vincenzo Romano s’interessò, sia pure marginalmente, di politica.
L’eco dei grandiosi festeggiamenti giunse all’orecchio del papa che, commosso e riconoscente, volle colmare i torresi, tramite il loro parroco, con ogni sorta di concessioni ed indulgenze.
Circa la morte di Pio VII, che tanta analogia ha con quella del Romano, e che è opportuno sottolineare, riportiamo un episodio che non collima con almeno due versioni: quella del pronipote del Beato, don Giuseppe Romano (1881) e quella del sac. Camillo Balzano (1932).
Nel riportare la deposizione di don Filippo Cuomo, Giuseppe Romano scrive:
D.FILIPPO CUOMO così depose: Alla morte di Pio VII, mentre si ritirava il Servo di Dio INSIEME CON ME , mi disse: In questa Torre del Greco vi è un anima, che ha vista l’anima del Pontefice andarsene addirittura (sic) in Paradiso. Io gli interrogai, chi fosse quest’anima, ma egli non più rispose, ed io pensai fra me, che quest’anima fosse Lui stesso. Gli ripetei, siete stato forse voi? Ed Egli seguitando a camminare, non mi rispose.
E questa è la versione di Camillo Balzano:
Il Ven. Romano si ritirava una sera col Sac. Pasquale Lombardo, (tanto eccellente nella virtù, quanto l’istesso Romano) ed era il venti luglio del 1823. Egli rivolto a LOMBARDO disse: in questa Torre del Greco, vi è una persona, che ha visto l’anima del Pontefice andarsene in paradiso. All’ora che egli diceva questa proposizione, moriva il grande Pontefice Pio VII, Barnaba Chiaramonti, tanto da lui venerato e grandissimamente amato…
Chi era che si accompagnava a don Vincenzo quella sera ? Don Filippo Cuomo o don Pasquale Lombardo? L’unica cosa a cui siamo in grado di rispondere è che non era il «venti luglio» – come scrive il Balzano – ma il venti agosto 1823. Don Camillo, per un suo lapsus, fa morire il papa un mese prima.
Ed ecco l’analogia della morte del Papa co quella del Romano.
Come accadrà per il Romano (1° gennaio del 1824, non come scrive Camillo Balzano: 1° gennaio 1825) il papa che già era caduto una volta, cadde di nuovo il 6 luglio 1823, e questa volta si ruppe il femore. Questa caduta lo portò alla tomba.
Assistito dal suo confessore cardinale Bertazzoli, compì tutti i doveri religiosi, ma un giorno che il troppo zelante assistente lo esortava a nuova devozioni importunandolo non poco, rispose annoiato:
– Andate, voi siete veramente un pio seccatore.
Morì, come abbiamo detto, il 20 agosto 1823 (cfr. David Silvagni, La Corte e la Società romana).
Le tribolazioni del preposito curato
Vincenzo Romano, il 1° gennaio 1824, mentre si accingeva a recarsi in chiesa per la messa, mise un piede in fallo e cadde. Nella caduta riportò la frattura del collo del femore sinistro ( la precisazione la dobbiamo a mons. Salvatore Garofano presente nell’ultima ricognizione sui resti mortali del Beato). Prima di allora, per tutti, si era rotto «il»femore. Pure il papa Pio VII si era rotto «il» femore o si era sfracellato «il» collo del femore. E ancora, che il Beato riportò la frattura « alla gamba ».
E ora noi, che stiamo tracciando un parallelo tre le vite dei due uomini, non sappiamo quale femore si fratturò papa Pio VII… E anche questo potrebbe avere certa importanza ai fini della nostra indagine.
Intanto la chiesa di S. Croce era stata edificata completamente anche se il Vesuvio per tutto il periodo dei lavori era stato ininterrottamente attivo, e molte volte le lave avevano minacciato la città, specialmente nell’eruzione dell’ottobre 1821.
Il 3 maggio del 1827, dopo che la facciata del tempio era stata ultimata, il Venerando Vegliardo elevò l’inno alla clemenza del Signore e alla Sua Infinita Provvidenza, con l’apporre sull’architrave della porta centrale la lapide che ancora oggi leggiamo.
D.O.M.
NOVUM HOC TEMPLUM IN HONOREM S. CRUCIS D.N. JESU CHRISTI
SUPER RUINAS ANTIQUI AB IGNEO VESUVII TORRENTE XVII KAL
JUL MDCXCIV LABEFACTATI PRAEMISSIS AD COLEUM PRECIBUS
ADMIRABILI DEI PROVIDENTIA HERCULANENSES EXCITAVERE
A.D. MDCCCXXVII
A DIO OTTIMO MASSIMO. GLI ERCOLANESI INNALZATE LE PRECI AL CIELO, PER AMMIRABILE PROVVIDENZA DI DIO, FECERO RISORGERE QUESTO NUOVO TEMPIO, IN ONORE DELLA S. CROCE DI N. S. GESU CRISTO, SOPRA LE ROVINE DEL VECCHI TEMPIO, DISTRUTTO DAL TORRENTE DI FUOCO DEL VESUVIO NEL 15 GIUGNO 1794.
ANNO DOMINI 1827
E’ d’uopo ricordare ancora che il torrente di fuoco distrusse il vecchio tempio, il 16 giugno (XVI Kal. Jul.) e non il 15 giugno (XVII Kal. Jul.), precisamente tra le ore 7,15 e le 7,30 del mattino.
Il tempio di S. Croce – scrive Camillo Balzano – in poco d’anni sorse maestoso, ampio, svelto, con le tre navi e la crociera, sovrastata da una cupola superba, intorno alla quale erano in giro dodici grandi finestre.
Don Vincenzo volgeva il suo sguardo sospettoso verso quella cupola, e se è vero ciò che dice il Balzano e cioè che nel tamburo c’erano ben dodici finestre (troppe per quella circonferenza) egli aveva molti motivi per preoccuparsi della sua stabilità. Egli perciò chiamò sul posto alcuni tecnici napoletani e dopo il sopralluogo questi tranquillizzarono il parroco: non c’era nulla da temere.
Eppure, don Vincenzo qualche volta borbottava: non era per niente convinto, tanto che una sera dell’estate del 1828, mentre rincasava accompagnato dal suo medico, Filippo Cuomo, si soffermò a guardare per l’ennesima volta la cupola superba a vedersi, tanto che i suoi occhi sfavillavano di gioia. Ma ad un tratto diventò triste e, rivolto al dottor Cuomo, disse: Non è lontano il giorno in cui non sarò più parroco di tutta questa chiesa – indicando con la mano la lunghezza del sacro edificio.
Il Crollo della Grossa Cupola della nuova chiesa di Santa Croce
Il 21 novembre 1828, era di venerdì, alle prime luci dell’alba, quando il sagrestano da pochi minuti aveva aperto la chiesa ai fedeli per la prima messa, la cupola rovinò con grande fragore, seppellendo sotto le macerie alcune pie donne. Lo porta centrale, per lo spostamento d’aria, fu divelta dai cardini e scaraventata all’altro lato della piazza.
Il progettista Ignazio di Nardo di cupole se ne intendeva. Era stato allievo del celebre architetto Ferdinando Fuga e proprio questi gli aveva consigliato nel 1774 di demolire la cupola del Gesù Nuovo perché pericolante. Il Di Nardi seguì il consiglio del maestro e sostituì la grossa cupola del «Gesù» con una «scodella» ed è quella che ancora oggi si vede.
Ironia della sorte, la grossa cupola della nuova chiesa di S. Croce a Torre del Greco, costruita dal Di Nardo, dovette essere sostituita da un’altra «scodella», simile a quella che lo stesso Di Nardo aveva costruito per la chiesa del Gesù.
A Torre si sentiva ripetere spesso : «‘A Cannelora state dinto e vierno fora», per dire che nel giorno dedicato alla festa della Purificazione della Vergine (La Candelora, perché si benedicevano le candele da accendere al capezzale dei moribondi) entrava l’estate e andava via l’inverno. Ciò non è per niente vero e non fu vero specialmente in quel 2 febbraio del 1830, quando soffiava impetuoso il vento di tramontana e la neve turbinava nell’aria.
Non valsero a nulla le esortazioni della sorella Gelsomina:
Vicié, nun ascì stammatina, nu vide che bruttu tempo? Sta facenn”a neve,
tu sciulìe e te faie male…
–Chello che vo’ Ddio, Gesummì – rispose dolcemente don Vincenzo, alzando lo sguardo al cielo, e uscì tra l’ululare del vento e il nevischio che gli sferzava il viso.
Durante la celebrazione della messa, si sentì male, perse i sensi e cadde sulla predella dell’altare.
Aveva l’apparenza d’un cadavere e fu ricondotto a casa su di una sedia da alcuni fedeli che si trovavano in chiesa. Da quel giorno don Vincenzo non uscì più di casa.
Si spostava con fatica trascinandosi con le grucce e con il bastone, e ottenuta l’autorizzazione dalla Santa Sede, celebrava la messa nella sua dimora che aveva trasformato in una piccola chiesa.
Intanto gli acciacchi si aggiunsero all’originale frattura di un femore. La quasi immobilità gli aveva
procurato piaghe alle gambe e una malformazione della colonna vertebrale, tutti malanni dolorosissimi che il santo accettava con gioia, perché – egli diceva – erano nulli a confronto con quelli patiti da Gesù Cristo sulla Croce.
Le sofferenze diventavano sempre più pesanti e questo stato durò fino a metà dicembre del 1831, quando don Vincenzo venne colpito da una polmonite doppia. Ormai era la fine.
Appena venuto a conoscenza della diagnosi del dottor Michele Cianguitto, l’infermo chiese al sacerdote Diego Colamarino di volersi confessare subito e ricevere così al più presto tutti conforti sacramentali.
Col trascorrere delle ore, a mano a mano che si avvicinava il grande momento, il moribondo intensificava le sue preghiere, invocando i nomi di Gesù e di Maria. Eppure le sue ultime parole furono di rampogna i bugiardi.
Durante la notte tra il 19 e il 20 dicembre, nei pochi istanti di lucidità chiedeva spesso del nipote don Felice Romano, che premuroso correva al capezzale dello zio per ascoltare le sue ultime raccomandazioni, gli ultimi consigli. Le lunghe veglie delle notti precedenti avevano spossato molto il fisico di don Felice che, vinto dalla stanchezza, era caduto in un sonno profondo, e quando don Vincenzo chiamò per l’ennesima volta il nipote presso di sé, al suo posto si presentò don Giuseppe Noto che, alterando la voce, voleva far credere di essere lui il nipote.
–Zi pré, che bbulite?
Don Vincenzo schiuse dolcemente gli occhi e con accento severo disse:
–Vuie nun site mio nipote. E ricurdàteve c’ ‘a bbuscia è sempre peccato.
Ancora una volta, per l’ultima volta, non aveva parlato con «linci e quinci».
L’ascesa alla gloria dei Beati
Don Vincenzo si addormentò nelle braccia del Signore, alle ore dieci e tre quarti del 20 dicembre 1831. Era vissuto 80 anni, 6 mesi e 17 giorni.
Il ferale annunzio venne dato alla popolazione da «Michele-Gennaro-Immacolata», la campana grande dell’antica e della nuova chiesa di S. Croce, alla quale fecero eco tutte le campane delle altre chiese di Torre.
La salma stette esposta nella stanza delle udienze, dove Don Vincenzo riceveva i suoi filiani (soprattutto i poveri) per tutto il resto del giorno venti, tra l’andirivieni di una folla strabocchevole che digià lo venerava come un santo.
Il giorno seguente, 21 dicembre, alle ore nove, la venerata salma venne trasportata nella chiesa di S. Croce, da dove, alle ore undici, su di un cataletto scoperto, fu portata processionalmente per tutte le strade della città. Il sac. Giuseppe Romano così scrisse:
Procedevano vestiti a sacco, i Fratelli delle due Congregazioni, cioè di quella del SS. Sacramento (S. Michele) e dell’altra dell’Assunta, in tanto numero, come se fossero andati ad una solenne Processione per qualche grande Festività. I sei fiocchi della coltre venivano portati da due Canonici, da due Ebdomadarii, e da due del Clero non Collegiale (questi ultimi per la luttuosa occasione avevano messo da parte il persistente rancore che essi avevano verso la Collegiata). E tutti procedevano con torchi accesi a quattro lumi; seguivano il Feretro, il Sindaco, i Decurioni, ed i Governatori della Chiesa Parrocchiale, tutti con ceri accesi a quattro lumi.
E dietro una enorme folla che, a mano a mano, lungo il percorso si faceva sempre più numerosa ed era un mercoledì giornata feriale: a Torre si era fermata ogni attività lavorativa.
I balconi e le finestre erano addobbati a festa con i più preziosi damaschi che non sono mai mancati nelle case torresi, anche le più povere, e la venerata salma passava sotto una pioggia di fiori e di confetti.
Il deposito canonico della salma del Romano avvenne nella mattinata del giorno 22. Alla presenza del vicario generale dell’Arcidiocesi napoletana, fu constatato che dalle vene del defunto usciva sangue fluido e che il corpo non presentava alcuna traccia di rigidità cadaverica. Parte del sangue fuoriuscito venne raccolto in un’ampolla chiusa a sua volta in una cassetta con otto suggelli della Curia Arcivescovile, e posta a lato della salma nella cassa grande che la raccoglieva.
La sepoltura fu allestita sotto il pavimento nella cappella intitolata a S. Francesco di Sales, la terza dopo il battistero, nella navata sinistra del tempio, dalla parte dell’Evangelo, e sul muro fu posto una lapide con una semplice iscrizione, indicante il nome, cognome e grado del defunto che ivi giaceva sepolto.
Camillo Balzano scrive che quella lapide era ancora a quel posto, quando venne rimossa il 13 ottobre 1927. C’è da pensare, piuttosto, che nel 1856, dovettero essere apportate aggiunte o che in quell’anno incisero una nuova lapide comprendente l’epigrafe apposta nel 1831 e quella del 1856.
La riportiamo anche noi rilevandola dallo stesso Balzano, anche per la sua importanza storica, perché la seconda parte della lapide ricorda la prima ricognizione sui resti mortali del Beato, ricognizione avvenuta alla presenza del cardinale Sisto Riario Sforza, il 24 novembre 1856, a venticinque anni dalla morte.
HIC IACET CORPUS SERVI DEO
D. VINCENTII ROMANO
ECCLESIAE S. CRUCIS TURRIS OCTAVAE PAROCHI
E IUSDEMQUE ECCLESIAE COLLEGIATAE PRAEPOSTI
CURIAE ARCHIEPISCOPALIS AUCTORITATE CONDITIUM
VIXIT ANNOS LXXX, MENSES VI, DIES XVII
OBIIT XIII KALENDAS IANUARII, ANNO MDCCCLVI
DIE VERO VIII KALENDAS DECEMBRIS ANNI MDCCCLVI
EM. MO ARCHIEPISCOPO NEAPOLITANO S.R.E CARDINALI
D. XISTO RIARIO SFORTA PRAESIDE
A. IUDICIBUS PER APOSTOLICAM SEDEM DELEGATIS
ITERUM RECOGNITUM
Il Balzano tiene a precisare che la «D.» avanti al nome del Beato, sta ad indicare il suo nome di battesimo ed è l’abbreviativo di Domenico.
La secondo ricognizione ebbe luogo il 13 ottobre 1927, nel primo centenario della consacrazione della nuova chiesa, come è segnato nell’architrave della porta centrale del tempio.
In questa occasione i resti mortali del Beato furono tolti dalla fossa in cui erano stati depositati nel lontano dicembre del 1831, anche perché il luogo dove erano fu trovato abbastanza umido, e dal lato dell’Evangelo furono trasferiti al lato della Epistola, sempre nella stessa cappella dedicata a S. Francesco di Sales.
Raccolti in una piccola tomba ornata da un bronzo bassorilievo con l’effigie somigliantissima del Venerabile, opera dello scultore Vincenzo Noto, sono stati in quel posto fino al 7 settembre 1963, quando alla presenza del cardinale Alfonso Castaldo, avvenne la terza ricognizione e fu allora che mons. Garofalo e i medici presenti, rivelarono la frattura del collo del femore sinistro. Sul fronte della tomba c’era la seguente iscrizione:
QUI RIPOSANO
VEGLIATI DALL’AMOR DEL POPOLO
GLI AVANZI MORTALI
DEL VEN. VINCENZO ROMANO
PREPOSITO CURATO DI QUESTA PARROCCHIA
CANONICAMENTE RICONOSCIUTI
IL 24 NOVEMBRE 1856
DOPO UNA NUOVA RICOGNIZIONE DELLA CURIA
FURONO QUI TRASFERITI
PER AUTORITÀ APOSTOLICA
IL 13 OTTOBRE 1927
3.6.1751 _ 20.12.1831
La beatificazione
Il 17 novembre 1963, papa Paolo VI, alla presenza dei vescovi di tutto il mondo, convenuti presso la S. Sede per il Concilio Ecumenico Vaticano II, con la beatificazione, elevò agli onori degli altari il preposito curato di Torre del Greco, don Vincenzo Romano, e nel pronunziare le eroiche virtù del parroco di Torre, il papa lo paragonò al curato d’Ars.
Abbiamo nominato San Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars – disse il papa – anch’egli oppresso interiormente dalla responsabilità dei doveri pastorali, fino a tentare di fuggire dalla sua parrocchia…sarebbe interessante notare molti altri aspetti di somiglianza fra quel Santo parroco e questo, legati a eguali doveri, e entrambi straordinariamente abili a esercitarvi sia pure in forme e misure differenti, virtù analoghe e a ricavarne meriti somiglianti (S. Garofalo «Un parroco sugli altari», II, ediz., pag. 188).
Il Curato D’Ars
San Giova. Battista Vianney, nacque nel 1786 a Dardilly, un piccolo villaggio francese, da poveri genitori. Fino all’età di 18 anni pasceva le pecore, inviato alla parrocchia d’Ars nella diocesi di Lione. Qui compì veri miracoli di conversioni col suo santo zelo e con l’esempio di una vita tutta semplicità e virtù, tutt’amore per i suoi parrocchiani; fu il sollievo dei poveri, povero egli stesso, contava soltanto sulla divina provvidenza (notare le parole incise sull’architrave della porta centrale della chiesa di S.Croce, volute dal nostro Beato: Admirabili Dei Providenza)
Il parroco di Ars, morì il 4 agosto 1859. Fu beneficato da papa Pio X, l’8 gennaio del 1905 e canonizzato da papa Pio IX, il 31 maggio 1925. La sua festa ricorre il 4 agosto. Egli è il celeste patrono di tutti i parroci, e chissà se non saranno anche le sue preghiere presso il Trono dell’Altissimo, che unite a quelle dei torresi tutti, ci faranno vedere in un futuro, speriamo, prossimo, la canonizzazione del nostro Vincenzo:
Per il parroco di Ars, trascorsero venti anni dalla sua beatificazione. Quasi ci siamo, ma chi potrebbe mai dirlo? Queste cose sono soltanto nella mente di Dio.
Ogni tanto si sente dire da alcuni (sono sempre gli stessi gaglioffi in fregola di farsi avanti): – Dobbiamo sistemare la piazza – Eppure l’avevano già sistemata una volta, quando malgrado le nostre proteste, crearono proprio in quella piazza, quell’orribile fossato e quell’artistica fontana. Oggi parlano di un monumento da erigere al Beato Vincenzo Romano…
Il monumento al Beato già esiste ed è perfino grandioso, o meglio lo era, nessuna statua, fosse pure di Manzù e fusa d’oro, potrebbe mai eguagliarlo. E’ la chiesa di S. Croce . Quella è il suo monumento, da Lui stesso elevato alla gloria di Dio. Per la statua, seppure si dovesse fare, e chissà se Egli dal Cielo la gradirebbe, ci sarà sempre tempo.
Volgiamo semmai la nostra attenzione alla “Sua” chiesa. Vediamo piuttosto lo stato pietoso in cui l’hanno ridotta.
L’hanno spogliata di tutti i suoi miglioro arredi. Hanno frantumato una preziosa balaustra di pregiatissimi marmi, gli stessi dell’altare maggiore. Hanno fatto scempio della crociera, con la costruzione di una pedana da sala da ballo e vi hanno costruito al centro un altare bianco come la ricotta, e con le colonnine che si vedevano nei chioschi degli acquafrescai e nei panconi per la vendita del baccalà. Hanno sostituito un organo polifonico meraviglioso con un altro, quando non c’era alcuna necessità. Abbiamo visto andare in fumo uno dei due stalli del coro. Non parliamo dei furti subiti, tra i quali quella delle quattordici stazioni della Via Crucis, difficilmente rimpiazzabili.
Le belle statue di Calì, dalle nicchie della facciata, mostrano i loro moncherini ai passanti. I modiglioni del cornicione del primo ordine della stessa facciata quasi non esistono più. Le tre porte (1) del tempio hanno molto da invidiare a quelle delle più sconquassate stalle dei più sperduti ed abbandonati cascinali. Ed è piovuto, piovuto, piovuto in tutta la chiesa, colorando gli archi e le volte di un deprimente bbro’allesse, con il relativo grave danneggiamento degli artistici stucchi.
Eppure la nostra chiesa di recente era stata aggregata alla Basilica Vaticana e non a caso, poiché l’antica distrutta dall’eruzione del 1794, i torresi l’avevano costruita di tasca propria, mentre a Roma sorgeva il più grande tempio della cristianità.
Leone X, il papa della scomunica a Lutero, in una bolla datata 10 luglio 1517, prima ancora che la prima chiesa di S. Croce venisse consacrata, accogliendo la volontà dei torresi a che la chiesa venisse da loro stessi amministrata e curata, ed in piena indipendenza dall’Autorità diocesana, stabilì:
che la chiesa medesima, né della Santa Sede, né dall’Ordinario del luogo, né dal Rettore, né da altri, potesse mai impetrarsi o istituirsi in perpetuo Beneficio Ecclesiastico, sotto l’espressa minaccia d’incorrere nello
SDEGNO DELL’ONNIPOTENTE IDDIO E DEI BEATI APOSTOLI PIETRO E PAOLO.
Si quis autem hoc attentare praesumpserit indignationem Onnipotentis Dei , ac Beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum.
Eppure, nessuno l’avrebbe mai creduto, dopo quasi due secoli si è osato sfidare lo sdegno dell’Onnipotente, volgendo quella chiesa, non al perpetuo beneficio ecclesiastico – perché i torresi, su questo non avrebbero mai ceduto se non vi fossero stati i Trattati Lateranensi del 1929 – ma a quello personale addirittura e ad esclusivo vantaggio di alcuni millantatori travestiti da scolacarafelle, i quali si vantano di rappresentare la fede, l’arte e la cultura a Torre del Greco.
Petenti insistenti e petulanti, in maniera subdola, sanno carpire la buona fede di chi non li conosce, e sono abili nello spillare il pubblico danaro dalle più svariate botti, sempre per fini personali, primo fra i quali, il più sfrenato e sfacciato esibizionismo, vano del resto, perché più fanno e più mostrano la loro inettitudine, pur riuscendo a nascondere la loro falsità.
Il terremoto del 23 novembre 1980, non è stato lo sdegno dell’Onnipotente, non perché la Natura sfugge al suo controllo, ma perché è stato proprio Lui, l’Autore, a crearla così…- direbbe Gaetano De Bottis.
Purtroppo la chiesa di S. Croce ha riportato consistenti danni che, uniti a quelli procurati dall’incuria e dal massacro architettonico, più dannoso dello stesso terremoto, ci lascia sbigottiti soltanto a pensare il tempo e il danaro occorrente per riportare il tempio al primitivo splendore.
Don Vincenzo costruì quella chiesa e, dal Cielo, dove si trova fin dal giorno in cui lasciò questa terra, dopo cinquant’anni, nel dicembre 1861, la salvò dal bradisismo quando crollarono tutti i fabbricati di Torre del Greco; l’ha salvata ancora una volta il 23 novembre del 1980.
Si può dire senza alcuna retorica che Egli, ancora oggi, regge sulle sue spalle tutte quelle pietre che, unitamente ai suoi filiani, trasportò dalla marina di Torre del Greco.
Con la volontà dei torresi tutti, con l’aiuto della Divina Provvidenza e con la protezione del parroco santo, quella chiesa DOVRA’ tornare ad essere com’era prima che gli orribili scempi venissero perpetrati.
(1) Attualmente sono state riparate e presentano un aspetto più dignitoso.
Tratto da: Raffaele Raimondo – Uomini e Fatti di Torre del Greco, pagg. 203/249