C’è una citazione, nel romanzo di Jules Verne “Ventimila leghe sotto i mari”, forse il più famoso dello scrittore francese, dedicata alla nostra città. Sfuggito ai più, forse perché incomprensibile oggi?
Un continente scomparso
“… Cos’era quel mondo esorbitante, che non conoscevo ancora? A quale ordine appartenevano quegli articolati, cui la roccia formava come una seconda corazza? Dove aveva trovato, la natura, il segreto della loro esistenza vegetativa… e da quanti secoli essi vivevano così in fondo all’oceano?
Ma non potevo fermarmi. Il capitano Nemo, abituato a quei terribili animali, non ci faceva caso. Eravamo giunti a un primo altipiano, dove mi attendevano altre sorprese ancora. Pittoresche rovine si delineavano, tradendo la mano dell’uomo, e non più quella del Creatore; grandi mucchi di pietre, fra cui si distinguevano forme vaghe di castelli, di templi, rivestiti di zoofiti in fiore, e ai quali le alghe e i fuchi formavano uno spesso mantello vegetale al posto dell’edera.
Insomma, cos’era quella porzione di globo ingoiata dai cataclismi? Chi aveva messo gli scogli e le pietre come i dolmen delle epoche preistoriche? Dove ero, dove mi aveva trascinato il capriccio del capitano Nemo?
Avrei voluto chiederglielo. Non potendo, gli afferrai il braccio per arrestarlo, ma lui, scuotendo il capo e indicando l’ultima punta della montagna, pareva dirmi:
«Vieni! Vieni ancora, avanti!».
Lo seguii con un ultimo balzo, e in pochi minuti superai il picco che dominava di una decina di metri tutta la massa rocciosa.
Guardai il declivio che avevamo appena risalito. La montagna si elevava soltanto di sette o ottocento metri sopra la pianura, ma dall’opposto versante dominava di un’altezza doppia quella parte d’Atlantico. Spinsi lo sguardo lontano, abbracciando un vasto spazio rischiarato da fulgore violento. Era proprio un vulcano, quella montagna. Cinquanta piedi sotto il picco, tra una pioggia di sassi e di scorie, un largo cratere vomitava torrenti di lava, che si disperdevano in cascate di fuoco in seno alla massa liquida. In tale posizione il vulcano, come una torcia immensa, illuminava il piano inferiore sino agli ultimi limiti dell’orizzonte.
Ho detto che il cratere sottomarino gettava lava, ma non fiamme. Per queste occorre l’ossigeno che è nell’aria, e non potrebbero svilupparsi sott’acqua; ma le colate di lava, che hanno in se stesse il principio della propria incandescenza, possono arrivare al color bianco, lottare vittoriosamente contro l’elemento liquido e vaporizzarsi al suo contatto. Correnti rapide trascinavano tutto quel gas diffuso, e i torrenti lavici scivolavano alla base, come deiezioni del Vesuvio su un’altra Torre del Greco.
Infatti ai miei occhi appariva una città distrutta, rovinata, con i tetti sfondati, i templi abbattuti, le arcate sconnesse, le colonne a terra, e dove tuttavia erano ancora visibili le solide proporzioni di un’architettura toscana. Poco oltre, i resti di un gigantesco acquedotto; qua le mura guaste di un’acropoli, con le linee incerte del Partenone; là le vestigia di un molo, come se qualche antico porto avesse riparato un tempo, sulle rive di un oceano scomparso, navi mercantili e triremi da guerra; più lontano ancora, tracce di lunghe mura crollate, di larghe strade deserte, tutta una Pompei sepolta sott’acqua, e che il capitano Nemo risuscitava per me!
Dov’ero? Dov’ero? Volevo saperlo ad ogni costo, volevo strapparmi la sfera di rame che mi imprigionava la testa.
Ma il capitano mi venne incontro, fermandomi con un gesto. Poi, raccattando un pezzo di pietra cretosa, avanzò verso una roccia di basalto nero e tracciò quest’unica parola: Atlantide. …”
Perché Verne cita la nostra città? Così come, poi, paragona le rovine di Atlantide a Pompei, una città sepolta da un vulcano, questa volta sottomarino.
Il romanzo “Vingt mille lieues sous les mers” viene pubblicato, in prima edizione, nel 1870, nove anni dopo la terribile eruzione del 1861. È evidente, da questa citazione, che quell’ennesimo cataclisma abbattutosi sulla nostra città provocò grande impressione nell’immaginario collettivo, travalicando i confini dell’appena nato stato unitario italiano.
Le rovine a Torre furono, invero, provocate più dal terremoto e dal bradisismo che dall’eruzione effusiva. Lungo delle fratture si aprirono diverse bocche eruttive a bassa quota (300-218 metri), nella zona di Montedoro, ma furono i sollevamenti del suolo fino a 150 centimetri (bradisismo negativo) a causare il crollo di molti edifici.
I torresi fecero voto alla Madonna Immacolata, da sempre oggetto di viva devozione, di portare in processione su di un carro trionfale una sua raffigurazione, se il cataclisma fosse cessato. Secondo il resoconto dei testimoni dell’epoca, la lava arrestò improvvisamente la sua furia devastatrice; da allora, già a partire dall’anno seguente, ogni 8 dicembre, la processione viene ripetuta in ricordo dell’evento miracoloso.