Stando
alle favole raccontate da canonico don Domenico Torrese, su la
scorta dei documenti e di tradizioni domestiche(!!!) e riportate
poi dal Di Donna (L'Università ecc. pag. 387) e quindi
copiate da altri, don Saverio Loffredo fu obbligato dalle autorità
repubblicane a pronunziare il discorsetto sotto l'albero della libertà
innalzato al Largo del Carmine. Anzi qualcuno scrive addirittura
che prima del Loffredo era stato designato don Vincenzo Romano.
Nulla di vero.
La verità è sempre una soltanto, e in questo caso
è la seguente.
Il canonico don Saverio Loffredo, come il De Bottis, era un prete
da dimenticare. Troppo dotto per dimenticarlo completamente; troppo
giansenista e giacobino per farlo conoscere meglio. Basta pensare
che di quest'uomo, così noto ai suoi tempi, non si conosce
né la data di nascita, né, almeno, quella di morte.
Il tempo però è galantuomo più di certi storici
e ci ha fatto conoscere tante cose deliberatamente tenute celate
solo per stupidi pregiudizi che, del resto, non intaccano minimamente
la reputazione del clero torrese di quei tempi.
Don Saverio Loffredo era il massimo esponente Repubblicano a Torre,
per cui spettava a lui pronunziare il discorso sotto l'albero, e
don Saverio, eloquente oratore e fervente giacobino, ci andò
volentieri e pieno di entusiasmo. Egli aderì alla Repubblica
come tanti sacerdoti come lui, tanti vescovi e perfino frati di
diversi ordini religiosi che non staremo a riportare, perché
i loro nomi fanno parte della Storia.
Signò, 'npennimmo chi t'ha traduto,
Priévete, muònace e cavaliere!
Non ci stancheremo mai di consigliare agli studiosi della materia
di andarci piano con i testi dei fratelli Castaldi e di Vincenzo
Di Donna, poiché da questi sono venuti gli «infortuni»
a tutti coloro che vi hanno attinto e riportato le notizie ritenendole
per buone.
In un famigerato «documento quinto» (L'Università
ecc., pag. 384) il Di Donna ci fa sapere che
venuta l'armata cristiana e propriamente ai 18 maggio il
supplicante Daniele Torrese e compagni si accinsero per dissotterrare
le bombarde ed imbarcarle e condurle all'Eminentissimo Ruffo.
Con queste che il Di Donna, pur riportandole, a solo titolo di curiosità,
avrebbe dovuto annotare con le debite precisioni. Non facendolo
ha indotto in errore perfino qualche autore illustre e colto.
Non è vero per niente che ai 18 maggio era venuta l'armata
cristiana e tanto meno «l'eminentissimo Ruffo».
Precisamente il cardinale Fabrizio Ruffo, il 18 maggio, si trovava
ad Altamura nelle Puglie. Partì da questa città il
24 maggio. Il 26 era a Poggio Ursino; il 27 a Spinazzola; il 28
a Venosa; il 29 a Melfi; il 31 ad Ascoli Satriano; il 2 giugno al
Ponte di Bovino; il 3 ad Ariano Irpino, da dove partì il
giorno 7; l'11 giugno era a Nola e, finalmente, il 13 giugno, alle
ore 23 circa, arrivo a San Giovannea Peduccio, sfociando dalla Via
dello Sperone, con tutta l'armata cristiana. E quindi non passarono
per Torre del Greco.
Nello stesso «documento quinto» (L'Università
ecc., pag. 386) si attesta che:
Vincenzo Magliulo, Giacomo Accardo e Francesco Gargiulo con altri
loro compagni zelanti Realisti
dando la caccia agli Giacobini
forestieri per cotesti luoghi dispersi e scorrendo per la campagna,
s'imbatterono nel Generale Schipanti stravestito ed errante per
questi luoghi, per trovare qualche scampo a salvarsi, e lo arrestarono
e il condussero, secondo esso chiedeva, agl' Inglesi.
E nemmeno questo è vero. Sentiamo invece che dice l'inviato
speciale della regina Maria Carolina, il padre Antonio Cimbalo,
che era al seguito dell'armata cristiana e del cardinale Ruffo.
Così passata la notte del giorno 13, nel
dì seguente si spedì una colonna della nostra truppa
accampata al Ponte (della Maddalena) per attaccare e distruggere
le forze de' Giacobini della Torre Annunziata, consistenti in mille
e cinquecento uomini circa, armati sotto il comando di un certo
Schipani, siccome felicemente riuscì, restando, al comparir
de' Russi, deu Calabresi, e di due compagnie di granatieri comandati
dal prode Colonnello D. Scipione la Marra, altri uccisi, altri dispersi,
ed i rimanenti prigionieri, una con la fuga del duce che li guidava,
il quale non molto tempo dopo, travestito, FU ANCHE EGLI PRESO NELLE
MONTAGNE DI SORRENTO.
Nemmeno è vero che il cardinale Ruffo, nella sua marcia su
Napoli, avanzò lungo la costa tirrenica; egli seguì
un itinerario che sarà rispettato un secolo e mezzo dopo,
dalla VIII armata britannica, nel 1943. Anche i «culturali»
della RAI-TV, nello sceneggiato «Luisa Sanfelice», lo
fanno arrivare un paio di volte a
Salerno: 'O cardinale
Ruffo è arrivat'a Saliéeerno!
Vero è, invece, che un gruppo di insorgenti, cioè
realisti, partiti dall'agro-nocerino presero alle spalle gli uomini
di Schipani e, a operazione compiuta, proseguirono per Napoli, passando
per Torre del Greco, dove assistettero al taglio dell'«infame
albero della Libertà» quando il canonico torrese Saverio
Loffredo già si era seppellito vivo nella cripta dell'Oratorio
dell'Assunta.
Dalla Rassegna storica del Risorgimento - anno XXI, 1934, fasc.
I, pag. 142, riportiamo una canzone di guerra, cantata nella
TORRE DEL GRECO nel tempo in cui si recise l'albero.
La canzone fu trovata nelle carte di un canonico di Cava dei Tirreni,
un certo Pagano, che a sua volta la ebbe da un compaesano reduce
dalla spedizione contro Torre. Occorre precisare che si tratta di
Torre Annunziata dove si era asserragliato Giuseppe Schipani.
Ed ecco la canzone cantata a Torre del Greco:
Or che troncato è l'albero
Sire ritorna al Trono
Lo scettro e l'ostro (1) sono
Già preparati a te.
La libertà chimerica
Pèra tra foco e sangue
Muoia il veleno e l'angue (2)
Muoia la libertà.
Uscite o verginelli
Con palme o con oliva
Gridate e viva viva
Il nostro amato Re.
Sicuro lui nel Campo
Il nostro onor mantiene
Che a liberar ci viene
Da questa schiavitù.
E vivano i Calabresi
Che quando il Franco venne
Non vollero l'antenne
Alzar di libertà.
Della Sicilia viva
Il popolo fedele
Che subito ha la vele
Spiegate a nostro pro.
Ai nostri pié' trafitti
Cadano i Giacobini
E i Franchi Cisalpini
Muoiano tutti or or.
Or che troncato è l'albero
Ognun cantando intona
Evviva la Corona
De Ferdinando Re.
E vivano gli Inglesi
PER MARE E PUR PER TERRA
CHE VENNERO A FAR GUERRA
CONTRO LA NAZION.
FINIS
AMICO DI CUORE
FILIPPO DI MARINO
(1) Il manto di velluto e di ermellino.
(2) Serpente anfibio dal corpo squamato
Dopo la firma, segue un'altra quartina racchiusa
in parentesi. Forse il canonico Pagano dovette comporla ed aggiungerla
qualche tempo dopo. La riportiamo per esteso: (Dell'empio franco
in mano/ Quanti affanni e pene / Tra barbare catene / A noi toccò
soffrir).
Abbiamo lasciato il canonico Saverio Loffredo murato vivo nella
cripta dell'Assunta in preda al panico. La sua colpa era quella
di aver pronunziato la concione sotto l'albero della libertà,
quattro o cinque mesi prima.
Sull'episodio ci hanno raccontato un sacco di balle inventate di
sana pianta, prima fra tutte quella del contadino che trovandosi
a passare mentre innalzavano l'albero avrebbe detto: Non l'avete
impeciato? durerà poco. L'allusione è troppo
sottile per essere stata espressa da un contadino, e quindi è
stata inventata.
Per quanto riguarda le idee del Loffredo, ora che lo abbiamo conosciuto
a fondo, non vi sono più dubbi: anch'egli era stato coinvolto
nella rivoluzione, come abbiamo detto prima, e il discorso sotto
l'albero non lo pronunziò perché costretto. E nemmeno
è vero che ebbe salva la vita per il perdono della regina
Carolina, perché questa era a Palermo; da lì andrà
a Vienna e tornerà a Napoli soltanto il 17 agosto del 1801.
Il povero don Saverio Loffredo temeva più la delazione dei
facinorosi che, per rendere un servizio alla Corona, si moltiplicavano
nella speranza di ottenere dal re, premi, onori e prebende, come
li supplicanti del documento quinto, riportato dal Di Donna,
e pieno zeppo di bugie.
Don Saverio si era accorto anche che molti giacobini erano di colpo
diventati realisti. Per farsene un'idea, basta pensare alla notte
del 25 luglio del 1943 quando, in poche ore e a cose fatte, cambiò
idea l'intero popolo italiano.
Carlo de Nicola, nel suo Diario Napoletano (dicembre 1798
- dicembre 1800) in una nota a margine, mentre accadevano i fatti,
così scrisse:
Quello che mi addolora, è il vedere questo popolo assassino
e briacone che si fa merito di essere stato egli solo fedele al
Re, quando noi, che siamo stati in mezzo a questa orrenda catastrofe,
sappiamo che quei stessi che andavano gridando viva il Re, gridavano
viva la Libertà attorno a Championnet allorché andò
all'arcivescovado. Quei stessi che vanno cantando.
Maistà chi t'ha traduto,
Muònece, priévete e cavaliere,
Te vulevano priggiuniere
indavano cantando l'inno Marsigliese, e la così
detta Carmagnola. Quei stessi che corsero a tagliare gli erbori,
concorsero a far la feste quando si piantarono. Quei stessi che
tanto si vantavano attaccati ai Sovrani, assordivano le nostre orecchie
gridando per le strade la fuga del Tiranno, la nova cantata
de Carolina, La Libertà de li muònece e deli priévete,
e simili scelleraggini.
Eppure a Torre del Greco, per quanto si conosce, non si verificarono
delazioni, vendette, assassini e cose del genere. Don Vincenzo Romano
vegliava sui cittadini, su tutti, fossero realisti o giacobini.
Poche erano le sue parole: silenzio, concordia e perdono, ma molte
erano le preghiere al Signore affinché cessasse la carneficina
che in quei giorni insanguinava la Capitale. Egli dovette pregare,
con uguale fervore, anche per quella testa calda di don Saverio
che egli sapeva (e chi più di lui?) nascosto nell'Oratorio
dell'Assunta.
Nella sola giornata del 15 giugno, a Procida, vennero impiccati
tre sacerdoti : il vicario curato dell'isola, don Nicola Lubrano,
don Antonio Scialoia e don Antonio De Luca. La lunga serie continuò
a Napoli.
Il 13 luglio, salì il patibolo il francescano Giuseppe Carlo
Belloni di Vicenza;
il 20 agosto, mons. Michele Natale, vescovo di Vico Equense e il
sacerdote don Nicola Pacifico di Napoli;
il 30 settembre, il padre crocifero Nicola de Meo di Napoli;
il 14 ottobre, il sacerdote don Nicola Palomba di Avigliano;
il 22 ottobre, il sacerdote don Gaetano Morgera di Forio d'Ischia;
il 31 ottobre, il sacerdote don Ignazio Falconieri di Lecce;
il 13 novembre, il benedettino Giuseppe Guardati di Sorrento;
il 7 dicembre, il sacerdote don Francesco Conforti di Napoli;
il 12 dicembre, il provinciale dei carmelitani, Michele Granata
di Rionero;
il 4 gennaio 1800, il sacerdote don Marcello Eusebio Scotti di Napoli;
quest'ultimo era certamente conosciuto da don Vincenzo Romano.
Lo Scotti, nel 1788, per la Stamperia Simoniaca, aveva pubblicato
un'opera in due volumi dal lungo titolo Catechismo Nautico, ovvero
dei particolari doveri della gente marittima, tratti principalmente
dalla S. Bibbia e dalle massime fondamentali della Religione
e che interessò anche i pescatori di corallo di Torre del
Greco.
Marcello Eusebio Scotti, professore dell'Università, giansenista,
nacque a Napoli il 9 lughlio del 1742. Vincenzo Cuoco nel suo Saggio
Storico sulla Rivoluzione Napoletana così scrive di lui:
E' difficile immaginare un cuore più evangelico. Egli
era l'autore del Catechismo nautico, opera destinata all'istruzione
de' marinai dell'isola di Procida, sua patria, che meriterebbe di
essere universale.
Pur la sua famiglia era originaria di Procida; lo Scotti nacque
a Napoli, come abbiamo testé riferito.
E anche a costo di essere criticato dai culturali, vogliamo farvi
conoscere un particolare curioso e nello stesso tempo commovente.
Don Marcello aveva insegnato il latino al giovinetto Raffaele Sacco,
il futuro poeta napoletano che nella Piedigrotta del 1835 farà
impazzire la gente con la sua canzone Te voglio bene assaie,
la cui musica venne attribuita a Gaetano Donizetti, cosa questa
che non fa certamente onore al grandissimo compositore bergamasco,
perché la canzone è nu taluorno.
La famiglia Sacco usò tutti i mezzi, compreso quello finanziario,
ma, purtroppo, non riuscì a salvare la vita al povero Marcello,
mentre a perderlo e a farlo morire furono, non si crederebbe, gli
stessi procidani. Anche mons. Bernardo Della Torre aveva fatto parte,
come lo Scotti, della Commissione
Ecclesiastica nel governo repubblicano, eppure se la cavò
molto bene. Arrestato per i proclami fatti durante la Repubblica,
inoltrò domanda di grazia al re, che ancora sostava nelle
acque di Napoli, acché S:M: gli consentisse di andare a piangere
i suoi errori in qualche luogo lontano dalla capitale ( come fece
l'abate Jerogades)
Il re disse che la richiesta di questo prelato lo aveva edificato
e che desiderava pigliasse da lui esempio l'arcivescovo onde chiedesse
ancor egli andar a piangere i suoi errori sopra Montevergine.
Il vecchio cardinale (arcivescovo di Napoli dal 1782) grande benefattore
dei torresi e dello stesso clero della cittadina vesuviana, durante
e dopo l'eruzione del 1794, seguì il consiglio del re, e
se ne andò in «volontario» esilio a Montevergine,
dove morì dimenticato da tutti, il 31 dicembre 1801.
Mons. Bernardo della Torre, vescovo di Lettere e Gragnano, giansenista
e vecchio massone, preferì, invece, mettere molte miglia
di distanza, tra lui e la capitale del regno e se ne andò
a Roma. Tornerà al seguito dei Bonaparte, e dal suo comportamento
vedremo poi che non andò a piangere per niente «i suoi
errori»
Non ci siamo dimenticati del canonico Saverio
Loffredo.
Le non allegre notizie che arrivavano da Napoli, arrivavano alle
orecchie di don Vincenzo Romano e poi a quelle di don Saverio, affranto
e tremante nel suo nascondiglio. A farlo uscire da quell'anfratto,
non fu la regina Carolina ma fu un altro vescovo molto diverso da
mons. Della Torre. Fu mons. Luigi Ludovisi, vescovo di Policastro,
visitatore del Regno, nominato dal re e che aveva giurisdizione
su tre province del regno: Terra di Lavoro (Napoli); Principato
Citra (Salerno) e Principato Ultra (Avellino e Benevento).
Questo santo uomo, attraverso una fitta corrispondenza fece capire
al re, che intanto se n'era andato di nuovo a Palermo, che l'unica
cosa che restava da fare era quella di porre fine alle delazioni,
alle accuse e agli arresti che colpivano la migliore gente e
quella più proba e quieta dei rispettivi paesi. Tanto
insistette nelle sue esortazioni che alla fine, S.M. con Real
carta, da Palermo in data 21 corrente (settembre 1799) si
è uniformato, ed ha ordinato che non si molestassero, ma
solo si prendesse notizia della loro condotta (cfr. De Nicola «Diario»).
Solo così il canonico Saverio Loffredo potette uscire dal
suo nascondiglio. Egli uscì veramente pentito: aveva visto
attraverso le sue preghiere l'intercessione della Vergine del Principio.
Il canonico Loffredo, oltre alla protezione della Vergine, ebbe
anche la fortuna di trovarsi dietro le linee del cardinale Ruffo,
il quale accampato al Ponte della Maddalena, salvò la vita
a molti rei sospetti, tra i quali tanti sacerdoti e nobili, compreso
il marchese Bèrio, tutti prigionieri nelle sue mani e ammassati
nell'enorme edificio dei Granili.
E c'era pure un giovanotto calabrese, quasi un ragazzo, appena sedicenne.
Lo avevano preso a Ponticelli da dove cercava di entrare a Napoli,
dopo di aver combattuto contro i sanfedisti del Ruffo, sotto il
comando di Giuseppe Schipani. Il giovanotto si chiamava Guglielmo
Pepe.
Scrive il sacerdote torrese Giuseppe Liguori (Attraverso la storie
e la tradizione, 1925) che don Saverio
grato si affrettò a sciogliere il suo voto, recando egli
stesso ai piedi della Madonna, una tavoletta votiva, la quale SARA'
CUSTODITA GELOSAMENTE, perché narri ai fedeli la potenza
della Vergine del Principio in due distici scritti dall'insigne
letterato sulla medesima tavoletta.
Un altro sacerdote, Camillo Balzano (Il Venerabile ecc.,
1932, pag. 149) ci fa sapere ancora, che
gli elegantissimi versi furono scritti da don Saverio Loffredo
col proprio sangue. Ed ecco i versi:
Alma Dei Mater, solvit Tibi vota sacerdos,
Et grates sempre. Te Duce, sospes agit
Nunc rogat, haec pendens votiva tabella, cruorem.
A Te servatum fundere, Virgo, Tibi.
«Eccelsa Madre di Dio, un sacerdote viene a Te per sciogliere
il voto e, da te guidato, mostrare sempre la sua gratitudine. Ora
dalla votiva tavoletta, qui sospesa, egli prega concedergli di consumare
per Te la vita che gli hai salvata ». (G.Liguori op. cit.,
pag. 125). Infatti sulla tavoletta votiva si vedono, a sinistra,
l'immagine della Vergine del Principio e, a destra, la figura del
canonico Loffredo sull'inginocchiatoio in atto di preghiera.
GLI EX
VOTO DEI NAVIGANTI TORRESI
DOVE SONO?!!!
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