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Tratto da
Uomini e Fatti di
Torre del Greco
pagg. 203/249

 

 

 

 

nell'immagine:
L'Albero della Libertà

 
 
VINCENZO ROMANO

DON SAVERIO LOFFREDO
E
L'ALBERO DELLA LIBERTA'

 

Stando alle favole raccontate da canonico don Domenico Torrese, su la scorta dei documenti e di tradizioni domestiche(!!!) e riportate poi dal Di Donna (L'Università ecc. pag. 387) e quindi copiate da altri, don Saverio Loffredo fu obbligato dalle autorità repubblicane a pronunziare il discorsetto sotto l'albero della libertà innalzato al Largo del Carmine. Anzi qualcuno scrive addirittura che prima del Loffredo era stato designato don Vincenzo Romano. Nulla di vero.
La verità è sempre una soltanto, e in questo caso è la seguente.
Il canonico don Saverio Loffredo, come il De Bottis, era un prete da dimenticare. Troppo dotto per dimenticarlo completamente; troppo giansenista e giacobino per farlo conoscere meglio. Basta pensare che di quest'uomo, così noto ai suoi tempi, non si conosce né la data di nascita, né, almeno, quella di morte. Il tempo però è galantuomo più di certi storici e ci ha fatto conoscere tante cose deliberatamente tenute celate solo per stupidi pregiudizi che, del resto, non intaccano minimamente la reputazione del clero torrese di quei tempi.
Don Saverio Loffredo era il massimo esponente Repubblicano a Torre, per cui spettava a lui pronunziare il discorso sotto l'albero, e don Saverio, eloquente oratore e fervente giacobino, ci andò volentieri e pieno di entusiasmo. Egli aderì alla Repubblica come tanti sacerdoti come lui, tanti vescovi e perfino frati di diversi ordini religiosi che non staremo a riportare, perché i loro nomi fanno parte della Storia.

Signò, 'npennimmo chi t'ha traduto,
Priévete, muònace e cavaliere!


Non ci stancheremo mai di consigliare agli studiosi della materia di andarci piano con i testi dei fratelli Castaldi e di Vincenzo Di Donna, poiché da questi sono venuti gli «infortuni» a tutti coloro che vi hanno attinto e riportato le notizie ritenendole per buone.

In un famigerato «documento quinto» (L'Università ecc., pag. 384) il Di Donna ci fa sapere che

…venuta l'armata cristiana e propriamente ai 18 maggio il supplicante Daniele Torrese e compagni si accinsero per dissotterrare le bombarde ed imbarcarle e condurle all'Eminentissimo Ruffo.

Con queste che il Di Donna, pur riportandole, a solo titolo di curiosità, avrebbe dovuto annotare con le debite precisioni. Non facendolo ha indotto in errore perfino qualche autore illustre e colto.
Non è vero per niente che ai 18 maggio era venuta l'armata cristiana e tanto meno «l'eminentissimo Ruffo».
Precisamente il cardinale Fabrizio Ruffo, il 18 maggio, si trovava ad Altamura nelle Puglie. Partì da questa città il 24 maggio. Il 26 era a Poggio Ursino; il 27 a Spinazzola; il 28 a Venosa; il 29 a Melfi; il 31 ad Ascoli Satriano; il 2 giugno al Ponte di Bovino; il 3 ad Ariano Irpino, da dove partì il giorno 7; l'11 giugno era a Nola e, finalmente, il 13 giugno, alle ore 23 circa, arrivo a San Giovannea Peduccio, sfociando dalla Via dello Sperone, con tutta l'armata cristiana. E quindi non passarono per Torre del Greco.
Nello stesso «documento quinto» (L'Università ecc., pag. 386) si attesta che:

Vincenzo Magliulo, Giacomo Accardo e Francesco Gargiulo con altri loro compagni zelanti Realisti…dando la caccia agli Giacobini forestieri per cotesti luoghi dispersi e scorrendo per la campagna, s'imbatterono nel Generale Schipanti stravestito ed errante per questi luoghi, per trovare qualche scampo a salvarsi, e lo arrestarono e il condussero, secondo esso chiedeva, agl' Inglesi.

E nemmeno questo è vero. Sentiamo invece che dice l'inviato speciale della regina Maria Carolina, il padre Antonio Cimbalo, che era al seguito dell'armata cristiana e del cardinale Ruffo.

Così passata la notte del giorno 13, nel dì seguente si spedì una colonna della nostra truppa accampata al Ponte (della Maddalena) per attaccare e distruggere le forze de' Giacobini della Torre Annunziata, consistenti in mille e cinquecento uomini circa, armati sotto il comando di un certo Schipani, siccome felicemente riuscì, restando, al comparir de' Russi, deu Calabresi, e di due compagnie di granatieri comandati dal prode Colonnello D. Scipione la Marra, altri uccisi, altri dispersi, ed i rimanenti prigionieri, una con la fuga del duce che li guidava, il quale non molto tempo dopo, travestito, FU ANCHE EGLI PRESO NELLE MONTAGNE DI SORRENTO.

Nemmeno è vero che il cardinale Ruffo, nella sua marcia su Napoli, avanzò lungo la costa tirrenica; egli seguì un itinerario che sarà rispettato un secolo e mezzo dopo, dalla VIII armata britannica, nel 1943. Anche i «culturali» della RAI-TV, nello sceneggiato «Luisa Sanfelice», lo fanno arrivare un paio di volte a…Salerno: 'O cardinale Ruffo è arrivat'a Saliéeerno!
Vero è, invece, che un gruppo di insorgenti, cioè realisti, partiti dall'agro-nocerino presero alle spalle gli uomini di Schipani e, a operazione compiuta, proseguirono per Napoli, passando per Torre del Greco, dove assistettero al taglio dell'«infame albero della Libertà» quando il canonico torrese Saverio Loffredo già si era seppellito vivo nella cripta dell'Oratorio dell'Assunta.
Dalla Rassegna storica del Risorgimento - anno XXI, 1934, fasc. I, pag. 142, riportiamo una canzone di guerra, cantata nella TORRE DEL GRECO nel tempo in cui si recise l'albero.
La canzone fu trovata nelle carte di un canonico di Cava dei Tirreni, un certo Pagano, che a sua volta la ebbe da un compaesano reduce dalla spedizione contro Torre. Occorre precisare che si tratta di Torre Annunziata dove si era asserragliato Giuseppe Schipani.
Ed ecco la canzone cantata a Torre del Greco:

Or che troncato è l'albero
Sire ritorna al Trono
Lo scettro e l'ostro (1) sono
Già preparati a te.

La libertà chimerica
Pèra tra foco e sangue
Muoia il veleno e l'angue
(2)
Muoia la libertà.

Uscite o verginelli
Con palme o con oliva
Gridate e viva viva
Il nostro amato Re.

Sicuro lui nel Campo
Il nostro onor mantiene
Che a liberar ci viene
Da questa schiavitù.

E vivano i Calabresi
Che quando il Franco venne
Non vollero l'antenne
Alzar di libertà.

Della Sicilia viva
Il popolo fedele
Che subito ha la vele
Spiegate a nostro pro.

Ai nostri pié' trafitti
Cadano i Giacobini
E i Franchi Cisalpini
Muoiano tutti or or.

Or che troncato è l'albero
Ognun cantando intona
Evviva la Corona
De Ferdinando Re.

E vivano gli Inglesi
PER MARE E PUR PER TERRA
CHE VENNERO A FAR GUERRA
CONTRO LA NAZION.

FINIS

AMICO DI CUORE
FILIPPO DI MARINO

(1) Il manto di velluto e di ermellino.
(2) Serpente anfibio dal corpo squamato

Dopo la firma, segue un'altra quartina racchiusa in parentesi. Forse il canonico Pagano dovette comporla ed aggiungerla qualche tempo dopo. La riportiamo per esteso: (Dell'empio franco in mano/ Quanti affanni e pene / Tra barbare catene / A noi toccò soffrir).
Abbiamo lasciato il canonico Saverio Loffredo murato vivo nella cripta dell'Assunta in preda al panico. La sua colpa era quella di aver pronunziato la concione sotto l'albero della libertà, quattro o cinque mesi prima.
Sull'episodio ci hanno raccontato un sacco di balle inventate di sana pianta, prima fra tutte quella del contadino che trovandosi a passare mentre innalzavano l'albero avrebbe detto: Non l'avete impeciato? durerà poco. L'allusione è troppo sottile per essere stata espressa da un contadino, e quindi è stata inventata.
Per quanto riguarda le idee del Loffredo, ora che lo abbiamo conosciuto a fondo, non vi sono più dubbi: anch'egli era stato coinvolto nella rivoluzione, come abbiamo detto prima, e il discorso sotto l'albero non lo pronunziò perché costretto. E nemmeno è vero che ebbe salva la vita per il perdono della regina Carolina, perché questa era a Palermo; da lì andrà a Vienna e tornerà a Napoli soltanto il 17 agosto del 1801.
Il povero don Saverio Loffredo temeva più la delazione dei facinorosi che, per rendere un servizio alla Corona, si moltiplicavano nella speranza di ottenere dal re, premi, onori e prebende, come li supplicanti del documento quinto, riportato dal Di Donna, e pieno zeppo di bugie.
Don Saverio si era accorto anche che molti giacobini erano di colpo diventati realisti. Per farsene un'idea, basta pensare alla notte del 25 luglio del 1943 quando, in poche ore e a cose fatte, cambiò idea l'intero popolo italiano.
Carlo de Nicola, nel suo Diario Napoletano (dicembre 1798 - dicembre 1800) in una nota a margine, mentre accadevano i fatti, così scrisse:

Quello che mi addolora, è il vedere questo popolo assassino e briacone che si fa merito di essere stato egli solo fedele al Re, quando noi, che siamo stati in mezzo a questa orrenda catastrofe, sappiamo che quei stessi che andavano gridando viva il Re, gridavano viva la Libertà attorno a Championnet allorché andò all'arcivescovado. Quei stessi che vanno cantando.

Maistà chi t'ha traduto,
Muònece, priévete e cavaliere,
Te vulevano priggiuniere…

…indavano cantando l'inno Marsigliese, e la così detta Carmagnola. Quei stessi che corsero a tagliare gli erbori, concorsero a far la feste quando si piantarono. Quei stessi che tanto si vantavano attaccati ai Sovrani, assordivano le nostre orecchie gridando per le strade la fuga del Tiranno, la nova cantata de Carolina, La Libertà de li muònece e deli priévete, e simili scelleraggini.

Eppure a Torre del Greco, per quanto si conosce, non si verificarono delazioni, vendette, assassini e cose del genere. Don Vincenzo Romano vegliava sui cittadini, su tutti, fossero realisti o giacobini.
Poche erano le sue parole: silenzio, concordia e perdono, ma molte erano le preghiere al Signore affinché cessasse la carneficina che in quei giorni insanguinava la Capitale. Egli dovette pregare, con uguale fervore, anche per quella testa calda di don Saverio che egli sapeva (e chi più di lui?) nascosto nell'Oratorio dell'Assunta.
Nella sola giornata del 15 giugno, a Procida, vennero impiccati tre sacerdoti : il vicario curato dell'isola, don Nicola Lubrano, don Antonio Scialoia e don Antonio De Luca. La lunga serie continuò a Napoli.
Il 13 luglio, salì il patibolo il francescano Giuseppe Carlo Belloni di Vicenza;
il 20 agosto, mons. Michele Natale, vescovo di Vico Equense e il sacerdote don Nicola Pacifico di Napoli;
il 30 settembre, il padre crocifero Nicola de Meo di Napoli;
il 14 ottobre, il sacerdote don Nicola Palomba di Avigliano;
il 22 ottobre, il sacerdote don Gaetano Morgera di Forio d'Ischia;
il 31 ottobre, il sacerdote don Ignazio Falconieri di Lecce;
il 13 novembre, il benedettino Giuseppe Guardati di Sorrento;
il 7 dicembre, il sacerdote don Francesco Conforti di Napoli;
il 12 dicembre, il provinciale dei carmelitani, Michele Granata di Rionero;
il 4 gennaio 1800, il sacerdote don Marcello Eusebio Scotti di Napoli; quest'ultimo era certamente conosciuto da don Vincenzo Romano.
Lo Scotti, nel 1788, per la Stamperia Simoniaca, aveva pubblicato un'opera in due volumi dal lungo titolo Catechismo Nautico, ovvero dei particolari doveri della gente marittima, tratti principalmente dalla S. Bibbia e dalle massime fondamentali della Religione e che interessò anche i pescatori di corallo di Torre del Greco.
Marcello Eusebio Scotti, professore dell'Università, giansenista, nacque a Napoli il 9 lughlio del 1742. Vincenzo Cuoco nel suo Saggio Storico sulla Rivoluzione Napoletana così scrive di lui:

E' difficile immaginare un cuore più evangelico. Egli era l'autore del Catechismo nautico, opera destinata all'istruzione de' marinai dell'isola di Procida, sua patria, che meriterebbe di essere universale.

Pur la sua famiglia era originaria di Procida; lo Scotti nacque a Napoli, come abbiamo testé riferito.
E anche a costo di essere criticato dai culturali, vogliamo farvi conoscere un particolare curioso e nello stesso tempo commovente.
Don Marcello aveva insegnato il latino al giovinetto Raffaele Sacco, il futuro poeta napoletano che nella Piedigrotta del 1835 farà impazzire la gente con la sua canzone Te voglio bene assaie, la cui musica venne attribuita a Gaetano Donizetti, cosa questa che non fa certamente onore al grandissimo compositore bergamasco, perché la canzone è nu taluorno.
La famiglia Sacco usò tutti i mezzi, compreso quello finanziario, ma, purtroppo, non riuscì a salvare la vita al povero Marcello, mentre a perderlo e a farlo morire furono, non si crederebbe, gli stessi procidani. Anche mons. Bernardo Della Torre aveva fatto parte, come lo Scotti, della Commissione
Ecclesiastica nel governo repubblicano, eppure se la cavò molto bene. Arrestato per i proclami fatti durante la Repubblica, inoltrò domanda di grazia al re, che ancora sostava nelle acque di Napoli, acché S:M: gli consentisse di andare a piangere i suoi errori in qualche luogo lontano dalla capitale ( come fece l'abate Jerogades)
Il re disse che la richiesta di questo prelato lo aveva edificato e che desiderava pigliasse da lui esempio l'arcivescovo onde chiedesse ancor egli andar a piangere i suoi errori sopra Montevergine.
Il vecchio cardinale (arcivescovo di Napoli dal 1782) grande benefattore dei torresi e dello stesso clero della cittadina vesuviana, durante e dopo l'eruzione del 1794, seguì il consiglio del re, e se ne andò in «volontario» esilio a Montevergine, dove morì dimenticato da tutti, il 31 dicembre 1801.
Mons. Bernardo della Torre, vescovo di Lettere e Gragnano, giansenista e vecchio massone, preferì, invece, mettere molte miglia di distanza, tra lui e la capitale del regno e se ne andò a Roma. Tornerà al seguito dei Bonaparte, e dal suo comportamento vedremo poi che non andò a piangere per niente «i suoi errori»… Non ci siamo dimenticati del canonico Saverio Loffredo.
Le non allegre notizie che arrivavano da Napoli, arrivavano alle orecchie di don Vincenzo Romano e poi a quelle di don Saverio, affranto e tremante nel suo nascondiglio. A farlo uscire da quell'anfratto, non fu la regina Carolina ma fu un altro vescovo molto diverso da mons. Della Torre. Fu mons. Luigi Ludovisi, vescovo di Policastro, visitatore del Regno, nominato dal re e che aveva giurisdizione su tre province del regno: Terra di Lavoro (Napoli); Principato Citra (Salerno) e Principato Ultra (Avellino e Benevento).
Questo santo uomo, attraverso una fitta corrispondenza fece capire al re, che intanto se n'era andato di nuovo a Palermo, che l'unica cosa che restava da fare era quella di porre fine alle delazioni, alle accuse e agli arresti che colpivano la migliore gente e quella più proba e quieta dei rispettivi paesi. Tanto insistette nelle sue esortazioni che alla fine, S.M. con Real carta, da Palermo in data 21 corrente (settembre 1799) si è uniformato, ed ha ordinato che non si molestassero, ma solo si prendesse notizia della loro condotta (cfr. De Nicola «Diario»).
Solo così il canonico Saverio Loffredo potette uscire dal suo nascondiglio. Egli uscì veramente pentito: aveva visto attraverso le sue preghiere l'intercessione della Vergine del Principio.
Il canonico Loffredo, oltre alla protezione della Vergine, ebbe anche la fortuna di trovarsi dietro le linee del cardinale Ruffo, il quale accampato al Ponte della Maddalena, salvò la vita a molti rei sospetti, tra i quali tanti sacerdoti e nobili, compreso il marchese Bèrio, tutti prigionieri nelle sue mani e ammassati nell'enorme edificio dei Granili.
E c'era pure un giovanotto calabrese, quasi un ragazzo, appena sedicenne. Lo avevano preso a Ponticelli da dove cercava di entrare a Napoli, dopo di aver combattuto contro i sanfedisti del Ruffo, sotto il comando di Giuseppe Schipani. Il giovanotto si chiamava Guglielmo Pepe.
Scrive il sacerdote torrese Giuseppe Liguori (Attraverso la storie e la tradizione, 1925) che don Saverio

grato si affrettò a sciogliere il suo voto, recando egli stesso ai piedi della Madonna, una tavoletta votiva, la quale SARA' CUSTODITA GELOSAMENTE, perché narri ai fedeli la potenza della Vergine del Principio in due distici scritti dall'insigne letterato sulla medesima tavoletta.

Un altro sacerdote, Camillo Balzano (Il Venerabile ecc., 1932, pag. 149) ci fa sapere ancora, che
gli elegantissimi versi furono scritti da don Saverio Loffredo… col proprio sangue. Ed ecco i versi:

Alma Dei Mater, solvit Tibi vota sacerdos,
Et grates sempre. Te Duce, sospes agit
Nunc rogat, haec pendens votiva tabella, cruorem.
A Te servatum fundere, Virgo, Tibi.

«Eccelsa Madre di Dio, un sacerdote viene a Te per sciogliere il voto e, da te guidato, mostrare sempre la sua gratitudine. Ora dalla votiva tavoletta, qui sospesa, egli prega concedergli di consumare per Te la vita che gli hai salvata ». (G.Liguori op. cit., pag. 125). Infatti sulla tavoletta votiva si vedono, a sinistra, l'immagine della Vergine del Principio e, a destra, la figura del canonico Loffredo sull'inginocchiatoio in atto di preghiera.

GLI EX VOTO DEI NAVIGANTI TORRESI… DOVE SONO?!!!