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Tratto da
Uomini e Fatti di
Torre del Greco
pagg. 203/249
 
 
 
VINCENZO ROMANO

MORTE DI DON GAETANO DE BOTTIS.
SOLENNE RITO FUNEBRE NELL'ANTICA CHIESA DI
S. CROCE: LA PIU' GRANDE ASSEMBLEA
MASSONICA A TORRE

 

Il 10 maggio 1790, giunse a Torre del Greco una triste notizia; don Gaetano de Bottis, durante la notte si era spento nella sua casa di Napoli a Vico Candelora.
Il primo a precipitarsi in Napoli, se non vi si trovava già, presso il maestro in fin di vita, fu il sacerdote torrese Francesco Saverio Loffredo che, primo fra tutti, si prodigò nel rendere i meritati onori all'illustre concittadino scomparso.
Dopo il servizio funebre celebrato nella chiesa di S. Giovanni Maggiore, poco distante dall'abitazione del De Bottis, il giorno seguente, 11 maggio, la salma venne inumata nella Congregazione del Rosariello di Palazzo sopra i «quartieri» di Via Toledo.
L'infaticabile Don Saverio Loffredo d'accordo con l'eletta schiera di amici del De Bottis, tutti preti giansenisti e professori dell'Università, col consenso entusiasta del Capo Ruota don Francesco Pennecheda, acceso giansenista più degli altri, e con l'adesione spontanea della marchese Francesco M. Bèrio, altro esponente della massoneria napoletana, decide di onorare il De Bottis nella sua patria. E tutti si misero all'opera.
Gli amministratori di Torre del Greco stanziarono la somma di 36 ducati e mezzo, dei quali, due andarono al sac. Don Salvatore Raia per copiare le iscrizioni funerarie dettate dal latinista Campolongo e da un certo signor De Vico. Iscrizioni dipinte su dei cartoni che qualche storico torrese, riporta addirittura per lapidi ed epigrafi funerarie, poi, distrutte dall'eruzione del 1794.
Il 28 giugno 1790, l'antica chiesa di S.Croce era pronta ad accogliere il fior fiore della cultura napoletana, mentre i primi curiosi si affollavano ad ammirare la sfarzoso apparato, e dato che il latino nessuno degli osservatori accorsi capiva niente, la loro attenzione era rivolta al ritratto del De Bottis che il marchese Bèrio aveva prestato per l'occasione.
- Matalè', tiene mente, Matalè'! Ron Gaetane!...E' tale e quale Pare ca te parla 'a vicin'a chillu ritratte!...Ma cumm'è mmuorto? Gesù, i''a poc''u veriette. Assù, 'i m''u ricordo quanno veveva abbasc''a funtana…
Sotto gli sguardi esterrefatti del povero parroco don Gennaro Falanga e del sacerdote don Vincenzo Romano, si videro arrivare da Napoli, con una diligenza, strumenti, e suonatori di una grande orchestra che si dispose ai lati del presbiterio. Era stata offerta dagli amici di Napoli. Dagli amici che erano stati tutti fautori della cacciata dei gesuiti dal Regno, con l'accorato disappunto di padre Alfonso De'Liguori che intanto, da tre anni, era andato a raccogliere il premio nel Regno dei Cieli.
Don Saverio Loffredo faceva gli onori di casa, perché di chiesa nemmeno a parlarne…Dall'alto del sacrato, in mezzo alle due rampe di scale, don Saverio Loffredo aguzzava lo sguardo per vedere se arrivavano le carrozze.
A poco distanza c'era l'eletto don Peppino D'Istria e il calessiere di don Saverio che parlottavano tra loro. Immagiamo di ascoltarli.
- Vicié'- fa don Peppino - tu haje sempe accompagnato a Papule, don Saverio, ma dimme, tu ne canusce quaccuno 'i 'sti signore ca mo véeneno?
- Don Peppì -risponde Vincenzo il calessiere - vuie mo vedite arrivà meza Papule, cumme faccio a conoscerle tutte quante? Però parecchie 'i cunòsche, pecché me l'ha fatte vedé 'u guardaporte r''u marchese Bérie, quanno aggio aspettato 'i nuttate sane, ca ron Saverio scennesse 'a copp''a casa r''u marchese e po' accumpagnàveme pur'a don Gaitano a casa suja, ca sta a mmiez''u larghe ìi S.Cuòsemo e Daziane…Ron Peppì, che nne facite 'u palazzo riale, vicino a cchillo d'u marchese. Ih, che lusso! Ron Peppì, sott''u palazzo ce sta 'na statua ca se chiama Atone e Vènnera, don Peppì, è tutt'nu piezzo 'i marmaro, riceno ca l'ha fatta nu 'Ntonio 'i Canova…
- Uéh, uéh, Vicié, sta arrivanno 'a primma carrozza. Vire nu poco chi scenne.
Dalla carrozze scendono quattro preti.
Dom Peppì i' ne conosco sultant'uno, è chillu llà, 'u verite, 'u cchiù giovane, se chiama ron Giuseppe Cestari, era tanto amico 'i ron Gaitane…Sta venendo n'ata carrozza…
- Viciè, e chist'ate chi so'? Uh, Viciè ce sta pure 'na signora!
- Ah, ron Peppì, chest'è a Pimentelle. E' 'na puitesse, e chillu vecchio è 'o maestro suje, ' u professore Campilonco.
Nel frattempo gli arrivi s'intensificano, diventa impossibile seguire tutte le persone che scendono dalle carrozze e c'è da scommettere che a Napoli non ne sia rimasta una.
- Vicié, e chistu prèvete zuoppo chi è?, quant'è brutto!...
- Ron Peppì, chist'è Rocates, è nu prèvete calabbrese. Chist'è ' u cap''i tutt'a massunaria.
E ancora per un pezzo, continuarono ad arrivare, dame, sacerdoti e professori dell'Università e don Saverio li conosceva tutti, e tutti li riceveva tra inchini, salamelecchi e baciamani. Il sacrato e la stessa chiesa sembravano più il «foyer» del teatro di S. Carlo che un luogo sacro.
E arrivarono ancora, il «duchino» Ascanio Filomarino col fratello Clemente, il prof. Avv. Mario Pagano; mons. Michele Natale; mons. Bernardo della Torre; il prof. Nicola Pacifico; il sac. Marcello Eusebio Scotti, autore del Catechismo nautico (1788); il professore di matematica Nicola Fiorentino; l'avvocato dei pescatori di corallo torresi, avvocato Luigi Serio; il duca Ettore Carafa d'Andria; il segretario dell'Accademia delle Scienze, dottore Michele Sarcone. Questi durante l'epidemia di colera del 1764, nei pressi della chiesa di S.Angelo a Nido, aveva sonoramente schiaffeggiato il celebre medico Domenico Cotugno.
Anche se non c'erano tutti, basta pensare che soltanto l'Accademia delle Scienze di cui faceva parte il De Bottis, era formata da duecentonovantuno professori.
Parecchi sacerdoti (erano abati senza abbazia) avanzavano con aria austera, recando il bastoncino. Era quel «bastoncino» a cui volle alludere il cardinale Sersale, dopo l'esame sostenuto dal giovane Vincenzo per la sua ammissione in seminario, nell'ormai lontano 1765.
L'oggetto di cui parliamo era un alto segno di distinzione, usato dai nobili del re. Era un bastone sottile e lungo che arrivava all'altezza della testa con un pomo all'estremità superiore, guarnito con dei nastri, come quello del «pazzariello» infatti quest'ultimo lo si vede ancora in giro vestito alla maniera del Settecento.
Per completare il «quadro>, occorre ancora qualche ritocco, con le parrucche incipriate di fresco, e donna Eleonora in crinolina, che da cinque anni viveva separata dal marito, mentre civettava coi poeti. Diciamolo pure, l'ambiente doveva essere abbastanza antipatico.
In quest' atmosfera da ricevimento mondano (altro che funerale) c'è da immaginare lo stato d'animo di don Vincenzo.
Durante il solenne rito funebre con accompagnamento a grande orchestra, egli dovette pregare caldamente , non tanto per l'anima di don Gaetano, che in fondo era stato un sacerdote esemplare, ma quanto per tutti gli intervenuti. Egli già presentiva la bufera che si sarebbe scatenata da lì a qualche anno, le grandi sofferenze che si darebbero abbattute sulla Chiesa cattolica, non esclusa l'incarcerazione del Pontefice. Egli, come vedremo, se ne ricorderà al momento opportuno.
Quelle teste calde dovettero impressionarlo non poco, specialmente durante l'orazione di don Saverio Loffredo, quando attraverso la voce stentorea dell'oratore, udì rimbombare, non i nomi di Gesù e di Maria, ma quelli di Cartesio, di Newton, di Leibniz, di Buffon, di Bergman.
Il frammassone don Saverio Loffredo s'era levata 'a capezza.

L'INIZIO DI UNA DELLE PIU' GRANDI ERUZIONI DELLA STORIA DEL VESUVIO