Il 10 maggio 1790, giunse a Torre del Greco una triste
notizia; don Gaetano de Bottis, durante la notte si era spento nella
sua casa di Napoli a Vico Candelora.
Il primo a precipitarsi in Napoli, se non vi si trovava già,
presso il maestro in fin di vita, fu il sacerdote torrese Francesco
Saverio Loffredo che, primo fra tutti, si prodigò nel rendere
i meritati onori all'illustre concittadino scomparso.
Dopo il servizio funebre celebrato nella chiesa di S. Giovanni Maggiore,
poco distante dall'abitazione del De Bottis, il giorno seguente,
11 maggio, la salma venne inumata nella Congregazione del Rosariello
di Palazzo sopra i «quartieri» di Via Toledo.
L'infaticabile Don Saverio Loffredo d'accordo con l'eletta schiera
di amici del De Bottis, tutti preti giansenisti e professori dell'Università,
col consenso entusiasta del Capo Ruota don Francesco Pennecheda,
acceso giansenista più degli altri, e con l'adesione spontanea
della marchese Francesco M. Bèrio, altro esponente della
massoneria napoletana, decide di onorare il De Bottis nella sua
patria. E tutti si misero all'opera.
Gli amministratori di Torre del Greco stanziarono la somma di 36
ducati e mezzo, dei quali, due andarono al sac. Don Salvatore Raia
per copiare le iscrizioni funerarie dettate dal latinista Campolongo
e da un certo signor De Vico. Iscrizioni dipinte su dei cartoni
che qualche storico torrese, riporta addirittura per lapidi ed epigrafi
funerarie, poi, distrutte dall'eruzione del 1794.
Il 28 giugno 1790, l'antica chiesa di S.Croce era pronta ad accogliere
il fior fiore della cultura napoletana, mentre i primi curiosi si
affollavano ad ammirare la sfarzoso apparato, e dato che il latino
nessuno degli osservatori accorsi capiva niente, la loro attenzione
era rivolta al ritratto del De Bottis che il marchese Bèrio
aveva prestato per l'occasione.
- Matalè', tiene mente, Matalè'! Ron Gaetane!...E'
tale e quale Pare ca te parla 'a vicin'a chillu ritratte!...Ma cumm'è
mmuorto? Gesù, i''a poc''u veriette. Assù, 'i m''u
ricordo quanno veveva abbasc''a funtana
Sotto gli sguardi esterrefatti del povero parroco don Gennaro Falanga
e del sacerdote don Vincenzo Romano, si videro arrivare da Napoli,
con una diligenza, strumenti, e suonatori di una grande orchestra
che si dispose ai lati del presbiterio. Era stata offerta dagli
amici di Napoli. Dagli amici che erano stati tutti fautori della
cacciata dei gesuiti dal Regno, con l'accorato disappunto di padre
Alfonso De'Liguori che intanto, da tre anni, era andato a raccogliere
il premio nel Regno dei Cieli.
Don Saverio Loffredo faceva gli onori di casa, perché di
chiesa nemmeno a parlarne
Dall'alto del sacrato, in mezzo alle
due rampe di scale, don Saverio Loffredo aguzzava lo sguardo per
vedere se arrivavano le carrozze.
A poco distanza c'era l'eletto don Peppino D'Istria e il calessiere
di don Saverio che parlottavano tra loro. Immagiamo di ascoltarli.
- Vicié'- fa don Peppino - tu haje sempe accompagnato a Papule,
don Saverio, ma dimme, tu ne canusce quaccuno 'i 'sti signore ca
mo véeneno?
- Don Peppì -risponde Vincenzo il calessiere - vuie mo vedite
arrivà meza Papule, cumme faccio a conoscerle tutte quante?
Però parecchie 'i cunòsche, pecché me l'ha
fatte vedé 'u guardaporte r''u marchese Bérie, quanno
aggio aspettato 'i nuttate sane, ca ron Saverio scennesse 'a copp''a
casa r''u marchese e po' accumpagnàveme pur'a don Gaitano
a casa suja, ca sta a mmiez''u larghe ìi S.Cuòsemo
e Daziane
Ron Peppì, che nne facite 'u palazzo riale,
vicino a cchillo d'u marchese. Ih, che lusso! Ron Peppì,
sott''u palazzo ce sta 'na statua ca se chiama Atone e Vènnera,
don Peppì, è tutt'nu piezzo 'i marmaro, riceno ca
l'ha fatta nu 'Ntonio 'i Canova
- Uéh, uéh, Vicié, sta arrivanno 'a primma
carrozza. Vire nu poco chi scenne.
Dalla carrozze scendono quattro preti.
Dom Peppì i' ne conosco sultant'uno, è chillu llà,
'u verite, 'u cchiù giovane, se chiama ron Giuseppe Cestari,
era tanto amico 'i ron Gaitane
Sta venendo n'ata carrozza
- Viciè, e chist'ate chi so'? Uh, Viciè ce sta pure
'na signora!
- Ah, ron Peppì, chest'è a Pimentelle. E' 'na puitesse,
e chillu vecchio è 'o maestro suje, ' u professore Campilonco.
Nel frattempo gli arrivi s'intensificano, diventa impossibile seguire
tutte le persone che scendono dalle carrozze e c'è da scommettere
che a Napoli non ne sia rimasta una.
- Vicié, e chistu prèvete zuoppo chi è?, quant'è
brutto!...
- Ron Peppì, chist'è Rocates, è nu prèvete
calabbrese. Chist'è ' u cap''i tutt'a massunaria.
E ancora per un pezzo, continuarono ad arrivare, dame, sacerdoti
e professori dell'Università e don Saverio li conosceva tutti,
e tutti li riceveva tra inchini, salamelecchi e baciamani. Il sacrato
e la stessa chiesa sembravano più il «foyer»
del teatro di S. Carlo che un luogo sacro.
E arrivarono ancora, il «duchino» Ascanio Filomarino
col fratello Clemente, il prof. Avv. Mario Pagano; mons. Michele
Natale; mons. Bernardo della Torre; il prof. Nicola Pacifico; il
sac. Marcello Eusebio Scotti, autore del Catechismo nautico (1788);
il professore di matematica Nicola Fiorentino; l'avvocato dei pescatori
di corallo torresi, avvocato Luigi Serio; il duca Ettore Carafa
d'Andria; il segretario dell'Accademia delle Scienze, dottore Michele
Sarcone. Questi durante l'epidemia di colera del 1764, nei pressi
della chiesa di S.Angelo a Nido, aveva sonoramente schiaffeggiato
il celebre medico Domenico Cotugno.
Anche se non c'erano tutti, basta pensare che soltanto l'Accademia
delle Scienze di cui faceva parte il De Bottis, era formata da duecentonovantuno
professori.
Parecchi sacerdoti (erano abati senza abbazia) avanzavano con aria
austera, recando il bastoncino. Era quel «bastoncino»
a cui volle alludere il cardinale Sersale, dopo l'esame sostenuto
dal giovane Vincenzo per la sua ammissione in seminario, nell'ormai
lontano 1765.
L'oggetto di cui parliamo era un alto segno di distinzione, usato
dai nobili del re. Era un bastone sottile e lungo che arrivava all'altezza
della testa con un pomo all'estremità superiore, guarnito
con dei nastri, come quello del «pazzariello» infatti
quest'ultimo lo si vede ancora in giro vestito alla maniera del
Settecento.
Per completare il «quadro>, occorre ancora qualche ritocco,
con le parrucche incipriate di fresco, e donna Eleonora in crinolina,
che da cinque anni viveva separata dal marito, mentre civettava
coi poeti. Diciamolo pure, l'ambiente doveva essere abbastanza antipatico.
In quest' atmosfera da ricevimento mondano (altro che funerale)
c'è da immaginare lo stato d'animo di don Vincenzo.
Durante il solenne rito funebre con accompagnamento a grande orchestra,
egli dovette pregare caldamente , non tanto per l'anima di don Gaetano,
che in fondo era stato un sacerdote esemplare, ma quanto per tutti
gli intervenuti. Egli già presentiva la bufera che si sarebbe
scatenata da lì a qualche anno, le grandi sofferenze che
si darebbero abbattute sulla Chiesa cattolica, non esclusa l'incarcerazione
del Pontefice. Egli, come vedremo, se ne ricorderà al momento
opportuno.
Quelle teste calde dovettero impressionarlo non poco, specialmente
durante l'orazione di don Saverio Loffredo, quando attraverso la
voce stentorea dell'oratore, udì rimbombare, non i nomi di
Gesù e di Maria, ma quelli di Cartesio, di Newton, di Leibniz,
di Buffon, di Bergman.
Il frammassone don Saverio Loffredo s'era levata 'a capezza.
L'INIZIO
DI UNA DELLE PIU' GRANDI ERUZIONI DELLA STORIA DEL VESUVIO
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