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Fra le virtù popolari di Torre del Greco c'è sempre
stato e c'è uno spiccato sentimento dell'arte. Il parere
del popolo in generale, ma di quello torrese in particolare, sulle
opere d'arte è stato sempre attento e giudizioso. Nell'opinione
del popolo è radicato il senso del buon gusto e soprattutto
quello del «grandioso» e nella nostra festa, una volta,
tutto era grandioso.
La meschinità non ha mai destato l'interesse e l'ammirazione
del popolo e quindi, se oggi la festa non è sentita e quasi
non voluta dal popolo, i motivi vanno ricercati proprio nell'assenza
totale di quella grandiosità che era il motivo dominante
della manifestazione.
Meschinità mentale purtroppo oggi è in coloro che
ignorano o fingono di ignorare le forze e le capacità dei
torresi e che, ove lo volessero, operando lentamente e mettendo
da parte ogni prosopopea, potrebbero riportare agli antichi fasti
la celebrazione di Quattro Altari.
E invece come sempre pronti ad esaltare chi viene da oltre Fiorillo
e a denigrare i fratelli concittadini e qualche volta anche gli
amici.
'Nce vo' 'o penniello 'e Niculino
Ascione
pe' 'ngarrà 'a ténta 'e stu mellòne!...
gridavano una volta i venditori di cocomeri.
Nella fantasia popolare era viva, più viva della rossa polpa
dell'anguria, l'ammirazione per l'arte di questo titano della scenografia,
della prospettiva e del colore.
Se Enrico Taverna fu insuperabile per le decorazioni luminose, Nicola
Ascione (1870/1957) rivoluzionò la tecnica di costruzione
degli altari.
I primi altari venivano costruiti di stoffa ed erano chiamati di
panno o di «paratura». Gli altari di questo tipo erano
a rilievo limitatamente agli aggetti architettonici e non erano
poi esclusivamente di stoffa, poiché si usavano anche il
cartonaggio per la costruzione delle statue, i veli per le nuvole,
e la carta dorata, argentata e colorata per le decorazioni.
Ma la maestria dei torresi era l'altare di fabbrica con mosaici
decorativi di corallo e di conchiglie.
Il «mistero» posto davanti all'altare era sempre una
scultura raffigurante qualche personaggio biblico.
Verso la fine del secolo scorso vi lavoravano Pasquale Carmosino
e Giuseppe Bottiglieri detto « Cecasanti ».
Nicola Ascione si faceva intanto, come suol dirsi, le ossa e dopo
aver partecipato fin da giovanissimo alla festa, nel 1899 si impose
definitivamente.
In quell'anno, oltre alla «porta» di Capo Torre, che
era luminosa ma era dipinta su tela, eseguì l'altare di fabbrica
a via Fontana, lato Cavour, detto «l'altare d' 'a Calabresella»
ed essendo il grande quadro «i martiri cristiani». Quel
quadro, dopo la festa, fu collocato sulla porta principale all'interno
della chiesa di S. Croce. Era largo quanto la navata centrale ed
è stato lì, molto ammirato perché di ottima
fattura, fino a quando, vigliaccamente, per congiura e per invidia,
lo buttarono giù distruggendolo.
Vennero poi i grandiosi, imponenti altari di fabbrica dipinti a
fresco che destavano l'ammirazione e la meraviglia dei forestieri
e, nello stesso tempo, l'orgoglio dei torresi per il loro bravo
«don Nicolino».
Egli era una «forbice» taglientissima e aveva molte
canne di ragione per esserlo: durante la sua lunga operosa vita
dovette sempre lottare contro la malignità e non di rado
subire ingiusti torti e quindi dei dispiaceri che lo costrinsero
infine ad allontanarsi dalla sua amata Torre e dal popolo che tanto
lo amava e lo stimava, e al quale egli ricambiava del suo affetto.
Nel periodo in cui insegnava all'Accademia di Belle Arti di Lucca
(è sempre la solita storia) alcuni tirapiedi volevano farlo
fuori dalla festa con la scusa che non aveva presentato a tempo
il bozzetto.
Un amico che faceva parte del Comitato, accortosi della subdola
manovra, spedì a Lucca il seguente, testuale, telegramma:
«Acqua 'mbrugliata manna
bozzetto»
Chi ha le tempie bianche deve ricordare « don Nicolino »
quando, verso il tramonto scendeva dall'impalcatura e con il suo
inseparabile sigaro toscano tra le labbra, seguito dal fedele Salvatore
Giobbe, si metteva con le spalle ai cancelli del passaggio a livello
della ferrovia ad osservare come asciugava il colore, per fare il
consuntivo della giornata di lavoro e per preparare quello del giorno
seguente.
Come per un appuntamento dato, si formava una folla di ammiratori
e di curiosi e anche le donne con i bambini in braccio si avvicinavano.
Erano le donne del popolo, quelle della marina, dove «don
Nicolino» abitava. Lui le conosceva tutte e conosceva i loro
figli, a uno a uno, e tra uno sguardo all'affresco dell'altare e
una ennesima accensione al sigaro (consumava tonnellate di fiammiferi),
li chiamava per nome e li accarezzava rimanendo lì fin quando
il crepuscolo faceva diventare tutto grigio.
E così ogni anno, salvo qualche interruzione che avveniva
quando a dipingere l'altare, anche ad affresco, era chiamato un
altro insigne artista torrese, Salvatore Sammarco.
Alla ripresa della festa, dopo la triste parentesi della secondo
guerra mondiale, «don Nicolino» avrebbe voluto risalite
sull'impalcatura ma, ahimè!, l'altare di fabbrica non fu
più costruito.
In una uggiosa e piovigginosa giornata del marzo 1957, era di venerdì,
si spense nella sua casa di Napoli nel popoloso e popolare Bordo
di S. Antonio Abate.
Una antica credenza vuole che i moribondi negli ultimi attimi di
vita rivedano le cose care della loro vita.
Amo perciò credere che don
Nicolino, in quei momenti estremi, sia
risalito idealmente sull'altare e, dall'altezza di trenta metri
abbia abbracciato ancora una volta, con lo sguardo, la sua amatissima
città e, ancora una volta, si sia afflitto per non aver trovato
in essa, che pur si vanta «il paese degli artisti»,
nessuno cui affidare i suoi colori e i suoi pennelli...
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