E'
in corso di lavorazione nello studio N. 3 di Via Teulada, l'originale
televisivo «La Contessa Lara». L'annuncio dato attraverso
la stampa fa capire, in modo abbastanza chiaro, che la «contessa»
malgrado i suoi atteggiamenti estrosi che la imposero come "personaggio",
aveva in sé la tempra di una femminista. Di una donna,
cioè, che, nata in una società destinata a scomparire, avverte i
fenomeni di un mondo nel quale si impone una presa di coscienza
dei propri diritti e dei propri doveri e, contemporaneamente di
una maggiore dignità (IL TEMPO - 21 novembre 1974).
L'elevazione... delle masse da parte della TV dell'attuale regime,
continua. Ora si cerca di ampliare e perfezionare l'opera intrapresa,
con l'innalzare al rango di idealista perfino un'isterica sensuale
priva di qualsiasi freno morale, come ebbe a dire l'avvocato Barzilai
durante il processo.
In attesa di vedere al più presto l'originale televisivo, che poi
non è per niente originale perché ricavato da fatti realmente accaduti
(come non è originale nemmeno ciò che scriviamo), vi raccontiamo
in anteprima la storia della «contessa», anche per cercare
assieme di trovare un nesso in cui intravedere una sia pure minima
traccia di ideale riguardante l'emancipazione della donna.
Vediamo, dunque, come la «contessa» s'imponeva la
presa di coscie...nza dei propri diritti e, soprattutto,
dei propri doveri.
***
La contessa Lara, al secolo Evelina
Cattermole, nacque a Firenze, e non a Nizza come lei diceva a tutti,
il 23 ottobre 1849, e non nel 1854 come voleva far credere. Il padre,
Guglielmo Cattermole, era console e la madre una musicista russa
la quale si separò dal marito, scomparendo così dalla scena.
Evelina a diciotto anni fece l'ingresso in «società»
come si usa fare ancora oggi mantenendo in vita uno stupido rito,
proprio di quella società borghese e decadente che si vuole cambiare.
La ragazza aveva una discreta preparazione culturale. Fin dalla
tenera età, aveva appreso la musica dalla madre, e dal padre le
lingue straniere, mentre con la letteratura aveva preso dimestichezza
nel salotto di Mariana Giarrè, dove frequentavano il poeta Pietro
Giannone, Niccolò Tommaseo, Francesco Dall'Ongaro e altri.
Si era nel 1867, Firenze era la capitale d'Italia e nella città
toscana. Patria delle Lettere, fiorivano diversi salotti letterari,
primo tra tutti quello di Maria Letizia Bonaparte, nipote di Napoleone
III e moglie dell'on. Urbano Rattazzi, presidente del Consiglio
dei Ministri. Proprio qui Evelina fece il suo ingresso in società
ed ebbe modo di far conoscere le sue doti di letterata. Successivamente
passò a frequentare anche il salotto della poetessa Laura Beatrice
Oliva, moglie del celebre patriota, giureconsulto e uomo politico
Pasquale Stanislao Mancini, primo sostenitore del «centrosinistra».
Di Donna Laura si disse "che voleva educare gli italiani
ai nuovi tempi ed educare le sue creature a ogni virtù". Fu
proprio il suo ardente patriottismo ad attirare sul marito le ire
del governo borbonico e quindi la fuga da Napoli, l'esilio a Torino
e poi a Firenze con il trasferimento della capitale in quest'ultima
città. A Napoli, sulla casa dove ella nacque, nel 1821, scrissero
tra l'altro che fu "la poetessa delle sventure e della libertà
d'Italia".
Con Evelina Cattermolo la sventura entrò anche nella sua casa
e donna Laura se ne accorse quando vide il figlio Eugenio innamorarsi
follemente della frivola ragazza che fin d'allora non prometteva
nulla di buono. Laura Mancini era soprattutto una donna di casa,
era una massaia (oggi questo termine oltre a cadere in disuso, è
perfino degradante per una donna agli occhi dei cor...ifei del modernismo
ad oltranza).
La famiglia Mancini si oppose fermamente al fidanzamento ma invano.
Per il forte dispiacere, donna Laura, già minata nel fisico, si
spense a Fiesole il 17 luglio 1869, in tempo per non vedere la rovina
del figlio.
Eugenio Mancini partecipò alla presa di Roma e, dopo il suo ritorno
a Firenze, il 5 marzo 1871 sposò Evelina Cattermola, la futura «Contessa
Lara».
***
Dopo le nozze, i coniugi si stabilirono
a Napoli dove era stato trasferito il marito, allora tenente dei
bersaglieri, e dopo qualche anno, con la promozione del Mancini
a capitano, la coppia si trasferì a Milano e qui cominciarono i
guai.
Come fanno tutte le donne che, nel tentativo di giustificare il
loro non irreprensibile comportamento, assumono il ruolo di vittima,
anche la Evelina accusava il marito di venire meno ai suoi doveri
coniugali e di preferire a lei il tavolo da gioco e le ballerine
dei «cafè chantant». La verità era invece che la donna
aveva non uno ma un'infinità di spasimanti e per averli, l'incoraggiamento
da parte sua c'era e come...
La scelta cadde su un impiegato del Banco di Napoli, filiale di
Milano, tale Giuseppe Bennati di Baylon, amico «carissimo»
del marito. Una lettera anonima avvertì il marito della relazione
ma l'amico negò ogni cosa.
I due si vedevano quasi ogni giorno in una camera fittata a orario,
situata in Via dell'Unione a poco distanza della casa dei Mancini.
Gli incontri avvenivano nel pomeriggio, mentre il capitano faceva
la siesta. In caso di allarme, ed era quando il marito si svegliava,
la cameriera di casa Mancini aveva il compito di avvertire subito
i due e il segnale per farsi aprire era quello di battere tre colpi
alla porta.
La cameriera Giuseppina Dones, o perché
era segretamente innamorata del padrone, o perché disgustata dal
comportamento della padrona, un brutto giorno, il 22 maggio 1875,
non solo sbottò ma aggiunse subito senza alcuna reticenza, l'indirizzo
e il segnale convenuto.
Il capitano Mancini per prima cosa corse
a prendere la rivoltella ma non trovandola al su posto, inerme si
precipitò in Via dell'Unione. Dopo i convenuti tre colpi alla porta
e questa venne aperta, comparve sull'uscio Giuseppe Bennati che
gridò: - Lina subito il revolver!!! E più veloce del fulmine la
donna fornì l'arma al Bennati che, a sua volta , la puntò contro
il Mancini. Era proprio la rivoltella che quest'ultimo non aveva
trovata a casa: la moglie gliel'aveva sottratta per difendere sé
stessa e ...l'altro in caso di necessità. Lì per lì non accadde
nulla, anche perché le grida dei tre avevano chiamato molta gente
e perfino due provvidenziali carabinieri di passaggio. Nell'allontanarsi
però il Mancini, rivolta al Bennati, esclamò furente: - Ci rivedremo!
- Era la sfida a battersi in duello.
Lo scontro alla pistola avvenne il 27
maggio nei pressi di Bollate alla periferia di Milano. Il Bennati,
di fronte all'amico tradito, non alzò l'arma benché invitato dai
padrini e dallo stesso Mancini prima di tirare il grilletto. Senza
sparare si abbatté al suolo, colpito al fegato. Morì il 7 giugno.
Il giorno del funerale la cameriera,
vinta dal rimorso, ingerì dell'acido solforico ('o spirit' 'e sale)
e se non morì rimase gravemente ustionata. La tragedia non era ancora
finita: la madre del Bennati per il dolore uscì di senno. Successivamente,
Il Mancini, imputato di omicidio, in duello, fu processato e ...assolto.
I coniugi Mancini si erano separati nello
stesso giorno del fattaccio di Via dell'Unione. Il 1° giugno, Evelina
era partita per Firenze, impegnandosi a non usare più il nome del
marito e di tenere una condotta onorata, con l'impegno da parte
del marito di corrisponderle un assegno mensile di cento lire (a
quei tempi il comandante delle guardie municipali di Torre del Greco
ne percepiva cinquanta). Tornò precipitosamente a Milano, appena
seppe della morte del Bennati. Si recise i capelli e andò a depositarli
con delle ghirlande di fiori sulla tomba dell'amato dove, per diversi
giorni, si recò a pregare. Ritornata a Firenze, si vestì a lutto
stretto e per qualche tempo firmò i suoi scritti con lo pseudonimo
«Lina di Baylon» e questo non per rendere omaggio...a
San Pasquale ma bensì all'amato bene defunto. Perciò, per alleviare
il dolore e la tristezza, si era legata ad un giovane abbastanza
allegro che si divertiva ad arruffarle i capelli che erano ricresciuti,
a imbrogliare le carte sullo scrittoio, a versarle il profumo sui
cuscini ecc. Liberatasi da questa specie di terremoto fu la volta
di un giornalista milanese e poi di un medico. Indi cambiò lo pseudonimo
in «Contessa Lara».
Sempre vestita a lutto stretto (il nero
le si addiceva: era bionda), si trasferì a Roma e fece la comparsa
nella redazione del «Fieramosca» dove incontrò il poeta
catanese Mario Rapisardi col quale non tardò a legarsi con «affettuosa
amicizia»; anche perché questi raddrizzava parecchi versi
alle sue liriche. Il Rapisardi dal canto suo, nemmeno stava bene
con le bozze frontali: la moglie Giselda Foianesi era scappata di
casa e se la intendeva con Giovanni Verga. Scoperta la tresca, Rapisaldi
se ne andò a Catania e avrebbe voluto che Evelina lo raggiungesse,
ma questa, già di nuovo nelle sue faccende affaccendata, rifiutò
l'invito. Nella redazione del «Nabab» conobbe Carducci
e D'Annunzio il quale le dedicò una poesia molto licenziosa: Sta
Lady Phoebe Cynicythere / su ' l damascato letto ampio e profondo:
/ splende la nudità... Nella stessa redazione conobbe Matilde
Serao e Edoardo Scarfoglio, allora fidanzati, e tanti altri ancora
tra i quali Peppino Turco autore della celebre canzone «Funiculì
Funiculà», e Alfredo Cesàreo, il futuro insigne letterato
siciliano che a quel tempo giovanissimo, venticinque anni, già stava
traducendo le « Satire » di Petronio dalle quali, di
recente, Fellini ha tratto il film «Satiricon». Col
Cesàreo la «contessa» faceva per davvero. Il giovane
aveva appena venticinque anni e lei ne aveva trentasei quando si
conobbero. Avevano una loro casa e l'idillio durò dieci ani, ma
il Cesàreo non abboccò a quella specie di amo...re. Non la sposò
perché oltre agli amori trascorsi, la «contessa» di
tanto in tanto e abbastanza di frequente ecc. ecc. Anzi verso il
1894, stanco e nauseato, chiese ed ottenne una cattedra all'Università
di Palermo e li trovò alloro per la sua fronte e non protuberanze
come se, al contrario fosse rimasto a Roma e avesse sposato la «contessa».
Infatti, per le sue benemerenze nel campo della letteratura, nel
1924, fu nominato senatore.
***
A Napoli viveva un pittore di
nome Giuseppe Pierantoni. Aveva studiato all'Istituto di Belle arti
e, come scrive Francesco Dell'Erba, "era un buon diavolo
che imbrattava tele e si credeva perciò un artista". Menava
una vita da "bohèmien" e non aveva né case né studio.
Se la faceva per Toledo e la sera tardi andava a dormire da sua
sorella. La sua attività di pittore la svolgeva un po' dovunque,
ospite negli studi di amici. Mangiava quando poteva e ciò non avveniva
quotidianamente. Conservava i mozziconi delle sigarette e quando
stava in bolletta, il che avveniva spesso, se faceva 'e spenielle.
Era un grande appassionato della poesia e a inculcare in lui questa
passione era stato un suo amico, Domenico Milelli, un talento fenomenale
che, a Roma nel 1894, per una speculazione edilizia aveva scritto
un volume in versi con lo pseudonimo «Conte di Lara»,
su invito dello stesso editore Angelo Sommaruga, lo stesso della
«Contessa Lara». Lo scopo era quello di far credere
ai lettori che a scrivere i versi fosse stato il marito della Cattermole,
Eugenio Mancini. Il Pierantoni, nel leggere i versi della Cattermol,
s'era innamorato di costei a ...distanza e spesso declamava con
enfasi l'ultima terzina di un sonetto che la poetessa dedicò a Mario
Rapisardi nei tempi felici: Era di maggio un dì, sull'imbrunire
/ Ei mi gettò una rosa entro 'l balcone / Io la raccolsi e mi sentii
morire. Stanco di fare la fame, si presentò ad un concorso per
disegnatore nelle ferrovie. Disgraziatamente... vinse il concorso:
fu destinato a Roma e questo fu la causa della sua rovina. Appena
giunto a Roma si mise in cerca della «contessa Lara».
E la trovò facilmente grazie all'interessamento del conte Angelo
de Gubernàtis, direttore della «Vita Italiana», che
mandò, diritto diritto, il Pierantoni dalla «contessa»,
la quale cercava proprio qualcuno che, con dei disegni, illustrasse
i suoi articoli di moda che lei scriveva per la rivista. L'incontro
avvenne in casa della scrittrice e, come era da prevedersi, il pittore
le piacque all'istante. Dopo alcuni giorni da che era iniziata la
collaborazione, per «incoraggiare» il timido giovane,
la «contessa» gli propose di cenare da lei invece che
in trattoria come egli abitualmente faceva. Oltre alla cena - gli
disse - aveva anche la «compagnia» di una bella signora...
E così ebbe inizio la storia o meglio l'epilogo della tragedia.
L'atmosfera non era sempre serena
poiché la «contessa» faceva spesso scenate (finte) di
gelosia col proposito di togliere dalla mente del Pierantoni ogni
sospetto sulle di lei abituali e frequenti scappatelle. Una volta
però il pittore ebbe la prova da una lettera intercettata che un
tale Pietro Sirletti le aveva inviata, per chiederle il pagamento
dell'affitto di una camera in via Goito, dove lei si vedeva con
un certo signor Andal. Questa volta una violentissima scenata di
gelosia la fece il, Pierantoni, e la donna si buscò parecchi schiaffi.
Decisero, perciò, di separarsi, ma dopo pochi giorni la pace era
fatta: la maliarda riuscì a convincere l'uomo che si era trattato
di un appendice ad una vecchia relazione ormai sepolta per sempre.
Di tanto in tanto, la «contessa»
tornava ad insistere su una strana proposta: chiedeva di essere
lasciata libera per qualche avventura di passaggio così, al ritorno,
sarebbe stato più... ardentemente innamorata di lui. E così la squallida
relazione si trascinava tra litigi, propositi di separazione e riappacificazioni.
Nell'agosto del 1896, mentre il Pierantoni
si preparava ad un concorso per un posto di insegnante di disegni,
Evelina ne approfittò per recarsi... sola a trascorrere un periodo
di riposo a Portofino, lasciandogli il compito di accudire gli animali
che vivevano in casa: un levriere, un pappagallo, un coniglio, una
gazza, alcuni canarini ecc....
In treno «la contessa» incontrò
Ferruccio Bottini, figlio di una sua amica, un giovanissimo ufficialetto
di marina che si recava a La Spezia, e con questi, inutile dirlo,
Evelina trascorse una parte del suo periodo di riposo, fino a quando
Ferruccio, imbarcato sulla R. N. Morosini, non dovette partire per
l'isole di Creta. E dato che il periodo trascorso non era stato
sufficiente al ... riposo, Evelina pensò bene di prorogarlo con
la collaborazione di Ezio, ... fratello minore di Ferruccio, tenente
di fanteria ( peccato che allora non c'era pure l'areonautica ).
La «contessa» tornò a Roma
completamente mutata e per niente... più ardentemente innamorata.
Il Pierantoni non tardò a capire che l'amica gli nascondeva chissà
quale altra magagna. Trascorso poco più di un mese tra scenate violentissime
e propositi di separazione, i due convennero di vedersi per un ultimo
colloquio (avviene sempre così, quando non si vuol farla finita
per davvero). Si ritrovarono ancora una volta in casa della «contessa»
la sera del 30 novembre. La donna non tardò a confessare l'avventura
avuta con Ferruccio Bottini; poi con la sua innata malvagità, per
ingelosire maggiormente l'uomo, finse di nascondergli una lettera.
Il Pierantoni gliela strappò di mano e lesse. La lettera non era
di Ferruccio ma del fratello Ezio. Le effusioni in essa contenute
e specialmente quelle al termine della missiva non lasciavano alcun
dubbio: «la contessa» era stata l'amante di due fratelli...
Fu allora che il Pierantoni, vinto più dalla nausea che dalla gelosia,
afferrò una piccola rivoltella dal comodino (un dono di Ferruccio)
e fece fuoco. La donna colpita all'addome, si accasciò sul letto,
sospirando: - Solo chi ama fa così...
Il giorno dopo fu operata, ma non
si salvò per il tardivo intervento. Morì nella tarda serata, dopo
di aver riferito al delegato della Pubblica Sicurezza che il Pierantoni
voleva vivere alle sue spalle e che le aveva sparato non per gelosia,
ma perché voleva del denaro. Ad una sua collega scrittrice disse
invece che perdonava al suo uccisore. Due affermazioni non veritiere:
la prima serviva per aggravare la condanna al Pierantoni, la seconda
per far apparire all'opinione pubblica un sentimento cristiano e
una nobiltà d'animo che in lei non c'erano.
***
Al processo, iniziatosi davanti
alla Corte d'Assise di Roma il 3 novembre 1897, il Pierantoni fu
difeso dall'on. Salvatore Balzilai, deputato repubblicano. A sostegno
della difesa deposero due poeti napoletani, Ferdinando Russo e Mario
Giobbe, i quali conoscevano bene il Pierantoni e conoscevano benissimo
«la contessa», per aver questa collaborato alla rivista
«La Tavola Rotonda», settimanale letterario fondato
nel 1891 da Gaetano Miranda per l'editore Ferdinando Bideri.
Scrive Giuseppe Fonterossi: Il difensore
tracciò un ritratto della «contessa Lara», quale appariva
dalle sue liriche e quale egli stesso l'avva conosciuta: una sensuale
priva di qualsiasi freno morale. E ancora, scrive
Giovanni Terranova: Mentre persone attendibili, testimoniavano
a favore dell'imputato: servette ciarliere e portiere pettegole
lo accusavano di essere uno sfruttatore e un volgare assassino.
Alle ultime parole dell'avvocato Barzilai, il
pubblico che assiepava l'aula, proruppe in un lungo e fragoroso
e insistente applauso, tanto che il presidente si vide costretto
a far sgomberare in attesa del verdetto.
All'imputato fu riconosciuto l'ingiusta
provocazione e in forza di ciò la Corte condannò il Pierantoni a
undici "cucozze" e dieci "cucuzzelle",
cioè undici anni e dieci mesi.
Scontata la pena, il Pierantoni visse a Napoli,
sempre solo e sempre perseguitato dalla miseria. Morì di tisi verso
il 1925, al Vomero.
***
Chissà nell'originale televisivo,
il pittore come sarà...«pittato». Certamente sarà «tinteggiato»,
cioè presentato, come il meridionale magnaccia, mentre la
«contessa» sarà la vittima della «società»
e l'antesignana della... dignità della donna.
Se le donne dei moderni femministi, o
femminelisti, sentono la dignità come la sentiva la «contessa
Lara»... 'mbeeeh, in questo caso come non detto.
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