di Raffaele Raimondo
Italia canzonettara e pallonista in
piedi!
Con il buon senso, il gusto della musica ed il segno della misura,
abbiamo pazientato troppi anni: ora basta! (Queste parole, se non
proprio queste, pare di averle ascoltate già una volta, ma
non riesco a ricordare da chi).
Come gli assuefatti agli stupefacenti hanno bisogno irrefrenabile
di procurarsi la droga, così non passa giorno, ora, minuto,
che non venga propinata a milioni di ascoltatori volontari od involontari
la relativa dose di roba di tal genere che chiamano canzoni ed invece
«imbecillitina»
prodotta negli stabilimenti farmaceutici «RAI»
Radiotelevisione italiana. Non si fa niente in Italia se non ci
sono canzoni...e che canzoni!
Una notizia confortante da Parigi, lascia sperare che questa epidemia
di cretinaggine si avvii verso la fine. Infatti, il pubblico della
«Ville Lumière» si reca agli spettacoli degli
astri dello yè yè fornito di ortaggi e verdura che
scaraventa sui cantanti a mo' di proiettili, accompagnando il lancio
con salve di fischi che, finalmente, non sono applausi.
Lotterie abbinate alle canzoni, festivals, Cantagiro, Cantaeuropa,
moltiplicati per mille, duemila fino alla nausea, che, purtroppo,
a milioni di individui non viene.
Abbiamo appena digerito, con l'ausilio di flaconi interi di bicarbonata,
digestivo «Antonietta» ed «Alfa Setter»,
l'ultimo festival della canzone (?) napoletana. Oh! spiriti eletti
di Di Giacomo, de Curtis, Falvo, Lama, Bovio, Valente, Murolo, Tagliaferri,
dove siete? E dove siete Pasquariello, Parisi, Papaccio, Donnarumma,
Mignonette, Zara I ecc.?
Abbiamo ascoltato una lagna mai sentita prima, ad eccezione di «A
pizza» che è piaciuta in modo particolare a Pierino
Vitiello. Centinaia di direttori d'orchestra e altrettanti can...tanti.
Eppure Napoli era la fucina delle canzoni (quelle vere) applaudite
non solamente in Italia ma nel mondo intero. I napoletani si sono
fatti detronizzare senza muovere un dito e con la complicità
degli organizzatori hanno distrutto anche la grande manifestazione
folkloristica di Piedigrotta.
*** *** ***
Ci troviamo sul lungomare di Via Caracciolo
prospiciente la Villa Comunale di Napoli, Peppino Raiola ed io.
Con i volti impregnati di tristezza guardiamo in silenzio e con
commiserazione quelle poche «lampetelle» nei viali della
Villa. Gruppetti spauriti di giovanastri fanno scempio delle aiuole
e degli alberi. Cianfrusaglie messe su alla buona nell'intenzione
dei progettisti e degli esecutori sono i «carri». Quei «carri» che Torre del Greco con i suoi artisti (Antonio
Mennella, Vincenzo Noto, Salvatore d'Amato, Nicola Ascione, Antonio
D'Auria ecc.) aveva innalzato a vere opere d'arte.
E' Peppino a rompere il silenzio. Tentennando il capo e socchiudendo
gli occhi, come è sua abitudine quando vuole ricordarsi di
un fatto remoto, accenna a parlare.
- Non ricordo bene - dice - ma deve essere accaduto nel 1930.
Nella Piedigrotta di quell'anno debuttammo ai giardini reali di
Napoli. Dico debuttammo, perché non ero solo. Sulle locandine
e nei giornali per alcuni giorni figuravano a caratteri cubitali
il «numero»: i maestri cantori di Torre del Greco.
Una pausa e Peppino continua: - Nella trattoria di «Principio
a mmare» a Torre del Greco quella sera di fine agosto l'atmosfera
non era allegra. Ad un tavolo erano seduti il prof, De Corsi, il
conte Giuseppe Matarazzo, lo scrittore Adolfo Narciso ed altri ancora:
giornalisti e pittori, amici di De Corsi, che sovente si recavano
da lui per trascorrere un po' di tempo in buona compagnia ed in...buona
tavola.
In un angolo appartato eravamo riuniti, strumenti musicali compresi,
io ed uno stuolo di amici che tu conosci o che conoscevi, perché
tanti di essi non sono più con noi.
- Caro Peppino sono trascorsi trentasei anni - aggiungo.
Qualche «lampara» si avvicina alla scogliera di protezione.
Ci sediamo sui ferri tubolari del parapetto mentre lui continua:
Ma almeno ti ricordi di Filippo Raiola e di Eduardo Cioffi? Accenna
di sì col capo (Filippone perse la vita in un banale ed inspiegabile
investimento ferroviario e Eduardo Cioffi vive a Genova e viene
spesso a Torre).
Ti ho detto che l'atmosfera non era allegra e ti spiego ora il perché.
Quel giorno un temporale di fine stagione aveva sollevato un po'
di mare ed i pescatori erano rimasti a mani vuote. Principio era
fuori di sé, non aveva nulla da servire agli ospiti di De
Corsi, i quali speravano di trovare un po' di pesce fresco e quasi
si accingevano ad andarsene. A questo punto una voce si levò
nella sala: - Potrei tentare se aspettate un poco; ho visto poco
fa una macchia di argento tra gli scogli «d'ò turcone».
Era la voce di Aniello «austino» conosciutissimo per la
sua bravura nella pesca con il « vacchio».
Peppino mi illustra in che cosa consiste la pesca con il «vacchio»,
come è fatto l'attrezzo e l'abilità che occorre nell'adoperarlo,
quindi proseguiva nel suo racconto:
- Aniello, tornò dopo un quarto d'ora circa. Con una rete
fatta a forma di borsa nella quale si dibattevano una cinquantina
di cefali dalle squame d'argento. Con aria spavalda, fra gli ooh!
di meraviglia, gettò su di un tavolo l'involto dicendo: Volevate
il pesce? Eccolo!
Il pesce fresco richiamò parecchio vino del Vesuvio e, mentre
il naso di De Corsi si faceva sempre più paonazzo, l'atmosfera
diventava sempre più euforica. Si cantò fino a tarda
ora, anzi fino alle ore piccole poiché il nuovo giorno era
già arrivato con le prime luci dell'alba.
Fra gli applausi ed i saluti, nacque l'idea di portare il gruppo
di poeti e musicisti torresi ai giardini di Napoli, dove si svolgevano
da diverse sere, degli spettacoli di varietà all'aperto,
imperniati sulla rievocazione delle più celebri canzoni napoletane
e con la partecipazione di Raimondo de Angelis e la figlia Carmen,
Ferdinando Rubino, Parisi, Gabrà, cioè quelli che
allora erano definiti i cannoni per la loro potenza di voce.
Il comm. Raffaele Viviani chiudeva lo spettacolo con le sue tipiche
creazioni.
Il debutto avvenne - continua a raccontare Peppino - un lunedì
sera e riportammo uno strepitoso successo di critica e di consenso
di pubblico, che nelle sere successive affollava sempre più
i giardini reali per ascoltare il «numero» dei Maestri
cantori... di Torre del Greco.
Con le serate successive richiamammo l'attenzione su di noi dei
più grandi editori ed autori dell'epoca, quali: Francesco
Feola, Gennarelli, Ernesto Murolo, il milanese-napoletano Bixio
e tanti altri.
I giardini erano disseminati di posteggi di frutti di mare, «maruzze» e meloni e su una di queste bancarelle di rossi e succosi frutti
troneggiava una sestina da me improvvisata qualche sera prima:
Io vengo dal regno dello fuoco
e come vedi fuoco porto meco
lo Pluto mi ha spedito in questo luogo
e dei comandi suoi già sento l'eco.
Io grido al buon passante ed ed al caro amico:
So belle sti mellune chine è fuoco!
Proprio a quella
bancarella tra il primo e secondo spettacolo ci incontrammo con
un folto gruppo di autori napoletani ed in un clima di affettuosa
amicizia furono «sacrificati» due enormi cocomeri.
Salvatore Baratta, che mi conosceva, mi prego di far eseguire dal
mio gruppo un paio di canzoni degli autori napoletani presenti.
Ne scegliemmo due: «A Furastera» composta da due poeti,
infatti, gli autori dei versi erano Libero Bovio ed Ernesto Murolo,
la musica di Evemero Nardella, e «Core Signore»
di Salvatore Baratta e Nicola Valente. Gli applausi ed il delirio
del pubblico arrivarono alle stelle e dovemmo eseguirle più
di una volta e fu un trionfo per Eduardo Cioffi.
Dopo lo spettacolo - è sempre Peppino che parla - fui chiamato
al «botteghino» (biglietteria) dal comm. Raffaele Viviani.
Mi avvicinai a lui e rispettosamente gli chiesi:
- Commendatò! quali sono i vostri ordini?- -Prego! Prego!-
rispose il grande attore, con la sua inconfondibile voce rauca e
continuò: - Qui siamo arrivati ad un punto sul quale dobbiamo
metterci d'accordo.- - Commendatò, scusate, io non «acchiappo»,
non afferro: in che cosa dobbiamo metterci d'accordo.- Maestro,
in poche parole, qua chi deve fare lo spettacolo, voi o noi ? -
- Cioè - si corresse - chi deve presentare le canzoni antiche,
voi o loro? Alludeva ai cantanti di professione.
Caro Raffaele, non sapevo se avevo capito fin troppo bene o se non
avevo capito affatto. Rimasi interdetto.
Viviani aggiunse: - Ho saputo che voi avete composto delle canzoni.
Allora io propongo questo: domani sera voi farete eseguire dal vostro
gruppo le canzoni composte da voi . e gli altri, come già
stavamo facendo da diverse sere, eseguiranno il loro repertorio.
La sere seguente infatti eseguimmo le mie canzoni , quelle nate
a Torre del Greco. Eduardo Cioffi eseguì: «Miglio d'Oro»,
Filippo Raiola: «Casarella d'ò monte», Arestullo
: «Campagnola» e, accompagnandomi con la chitarra, io
esegui un'altra mia canzone: «Canta». Nell'intervallo
tra i due spettacoli il duca Maresca di Serracapriola si avvicinò
ad Eduardo Cioffi e quasi in segreto gli «mollò»due
pezzi d'argento da venti lire. Ho detto quasi in segreto, perché
gli occhi felini di Filippone avevano visto. Appena il duca si allontanò,
Filippo piombò su Eduardo e gli chiese: Che ti ha dato il
duca? - Niente ...un pacchetto di sigarette. Eduà! da quando
le sigarette hanno incominciato a luccicare? Fuori i soldi! Così
Eduardo prima l'una e poi l'altra, mise fuori le due monete d'argento.
Sia nel primo che nel secondo spettacolo il pubblico era entusiasta
e non ci lesinava gli applausi lunghi e scroscianti. Dalle facce
degli «artisti»
di professione si vedeva che nell'aria spirava qualcosa d'insolito
e di malcontento.Il pubblico era tutto per noi e questo li innervosiva
non poco.
Dopo lo spettacolo fui chiamato alla biglietteria dove mi attendeva,
questa volta, l'impresario che con voce melliflua, cercando di giustificarsi,
non trovava parole per dire quello che voleva dire. Fui io stesso
a trarlo dall'imbarazzo: - Ho capito. Dobbiamo andarcene?
E così finì il breve ed effimero trionfo dei Cantori
di... Torre del Greco...
Caro Peppino! - dico, interrompendolo - trattandosi di canzoni è
sempre... la medesima storia, cioè al pubblico non si dà
quello che chiede, ma quello che gli si vuole imporre, ed oggi lo
fanno sfacciatamente.
Ci rimase la bocca amara- aggiunse Peppino - per l'ingiustizia subita.
Ci furono di conforto il giudizio del pubblico e le due palanche
di argento del duca, che furono tramutate in bottiglie di quel vino
di Principio che, se prima aveva procurato il nostro successo, dopo
servì a consolarci ed a farci dimenticare.
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