Alle volte strane coincidenze
ravvivano dei ricordi sopiti dal tempo, e ridestano delle sensazioni
gradevoli o amare, a secondo dei casi. Ma se dovessi definire ciò
che ho provato nei trascorsi giorni d'agosto, per una somma di circostanze,
non saprei esprimerlo. Posso dire però, che i ricordi quanto
più belli sono, tanto più hanno un sottofondo di malinconia.
A provocare im me questo indefinibile stato d'animo è stato
l'ascolto di una canzone di un amico
lontano e una foto che mi ha «sorriso» dalle pagine di
un rotocalco e che mi ha fatto esclamare: - Toh, chi si rivede!...
*** *** ***
Alle
ore 12,35 di Martedì 8 agosto, il telefono trilla e dall'altro
capo del filo mi giunge la voce premurosa di mia figlia Rosetta:
- Papà, «Telenapoli» sta trasmettendo la canzone
del tuo amico!... E infatti, attraverso il telefono, odo la voce
inconfondibile della Mignonetta nell'insuperabile interpretazione
di «Cartulina'e Napule».
Questa ormai celebre canzone, che proprio in questi giorni compie
cinquant'anni, mi è particolarmente cara per la fraterna
amicizia che mi lega all'autore dei versi, Pasquale Buongiovanni,
che risiede a New York; perciò la telefonata di mia figlia.
Prima ancora che il telefono trillasse, stavo osservando un inserto
pubblicato nel settimanale «Oggi» (N. 31 del 30 luglio
1977) dal titolo «Guida alle Tradizioni» quando da una
pagina salta ai miei occhi una stupenda foto a colori raffigurante
una veduta parziale delle luminarie da me progettate per la Festa
della Piedigrotta del 1960 in Piazza Vittoria a Napoli.
E'
un'inquadratura tra le tante, riportata nell'Enciclopedia «Colorama»
della Mondadori, in parecchi libri (anche didattici), pubblicazioni
varie, riviste turistiche e perfino sulle copertine di una serie
di quaderni scolastici, dove il fabbricante (...è pure bergamasco!)
vi ha fatto stampare: ... «Proprietà
riservata». Dato però che l'autore di queste luminarie
meravigliose, non è bergamasco ma è torrese di Torre
del Greco e se ne vanta, con tanti saluti alla «proprietà
riservata», il lettore potrà vedere in questa stessa
pagina per rendersi anche conto di come, oggi, alle volte si usa
parlare di luminarie, per quattro «lampetelle»
e tre «fetecchie».
*** *** ***
Combattuta a spada
tratta perfino da certa stampa napoletana, era fatale che la Festa
di Piedigrotta morisse. Io che scrivo ne ebbi la netta sensazione
fin dal 1955, per le violenti critiche rivolte all'amministrazione
comunale del tempo, per lo sperpero di danaro pubblico che si faceva
per la festa, attraverso gli articoli giornalistici di tre o quattro «schiattamuorte». E tali erano, perchè
anche... jettatori, come si vedrà.
Proprio in quell'anno, ad un pannello luminoso dal titolo «Tarantella
a Marechiaro», feci applicare una specie di colonna sonora
sincronizzata coi movimenti delle figure cinematiche disegnate sul
pannello.
L'attesa era vivissima, tanto che la RAI mandò in onda una
conversazione tra me e il giornalista Ennio Mastrostefano.
Nella sera della prove preliminari, tanto per incominciare, fui
borseggiato a Piazza Tribunali mentre salivo su di un autobus. Giunto
nella zona, vidi da lontano che le cose non davano bene. Infatti
quando arrivai sul posto, ai miei occhi si presentò una scena
straziante. Tutti i componenti la squadra degli elettricisti, primo
tra tutti Nicola Del Gatto, si dibattevano in un pianto dirotto
che al mio sopraggiungere si tramutò in un coro di lamenti
e singhiozzi. Tracce di sangue sull'asfalto... «Totonno'o
nunziatese» era precipitato dall'impalcatura del pannello
da un'altezza di 15 metri. Arrivò morto al vicino ospedale
» Loreto» di via Crispi. Era la sera del 24 agosto 1955.
La sera del 5 settembre, andò in funzione il «marchingegno»
con la voce registrata del «pulcinella» Gianni Crosio,
con orchestra a plettri e coro, davanti a migliaia e migliaia di
spettatori entusiasti per la perfetta sincronia delle luci con i
suoni: «'O
Vesuvio s'ha miso 'a curona 'e nu rre / bérébébbétébbé...
bérébébbétébbé...».
Il giorno dopo, «Il Giornale», quotidiano liberale napoletano,
in un corsivo di cronaca, alla sparata del Pulcinella delle luminarie,
fece la sua, e con un violentissimo articolo sotto il titolo «Peperepè
Cuppulò supplizio cinese», chiese a gran voce la
testa del sottoscritto: «Chi sarà mai stato l'autore
'geniale' di questa incredibile trovata che non serve a nulla, per
additarlo a quanti sono costretti a subire la tortura da 'giardino
di supplizio' non sappiamo e ce ne duole. Sarebbe gustoso conoscere
i...giudizi espressi su questo 'inventore', perturbatore della pace
del prossimo». Voi capite? Durante la fragorosa festa
di Piedigrotta, quell'infelice invocava «la pace del prossimo».
Il pennaruto sapeva che il «sonoro» era dosato in modo
da essere contenuto entro un raggio abbastanza limitato, anche per
evitare distorsioni; ma lui era contro la festa: era uno di quei
tre o quattro «schiattamuorte».
Per sei anni consecutivi e fino al 1960, le luminarie raggiunsero
il massimo dello splendore... è proprio il caso per dirlo,
tanto da richiamare l'attenzione di uno scrittore come Domenico
Rea, in un suo articolo , «Le
feste: le luminarie in questi ultimi tempi hanno subito un'integrale
trasformazione».
Dopo il 1960, con l'avvento degli «schiattamuorte» al
potere, Piedigrotta divenne una specie di «festa'e ll'Archetiello»,
(per la quale furono, diciamo, sperperati più denari di prima),
per finire ingloriosamente alcuni anni dopo.
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I torresi hanno
sempre dominato in ogni campo della festa di Piedigrotta, ad incominciare
dai fuochi artificiali; anzi questo primato è addirittura
atavico, risale ai tempi della dominazione spagnuola.
Il conte di Castrillo, per dimostrare ai suoi generali che il Castello
dell'Ovo era vulnerabilissimo dal mare, al contrario di quello che
essi ritenevano, volle darne una prova mediante una finzione.
Si trattava di simulare un attacco dei francesi dal mare, lo sbarco
e la distruzione del Castello, impiegando una massa enorme di fuochi
artificiali. Perciò bandì un concorso tra i migliori
pirotecnici di Napoli e dintorni, e per il gran numero di concorrenti,
tutti rinomati, la scelta fu laboriosa, lunga e difficile, ma alla
fine l'incarico venne affidato ad un «fuochista» di Torre
del Greco, tale Giuseppe Dell'Orca.
Il 9 settembre 1637, era di Domenica, a due ore di notte (ore 21
circa), ebbe inizio lo spettacolo che, a detto dei diaristi dell'epoca,
fu talmente terrificante e vicino alla realtà, che lo stesso
viceré temette per la sabilità dell'antico Castello,
specialmente quando avvenne la simulazione dell'esplosione della «santabarbara». Alla fine sia il popolo che il viceré
decretarono il trionfo di Giuseppe Dell'Orca, «il fuochista» di Torre del Greco.
Ancora oggi, anche senza la Festa di Piedigrotta, si usa ripetere
tale spettacolo...a scartamente ridotto, naturalmente.
*** *** ***
Sono ancora in molti
a ricordare che cosa erano i «carri» piedigrotteschi,
prima ancora che i torresi partecipassero alla festa con il loro
artistico carro. Generalmente erano dei rozzi carrettoni con gente
messe su alla rinfusa o intorno ad un tavolo d'osteria con l'immancabile
pergolato, il cantante con la posteggia, il vino a tavola e i commensali
ubbriachi per davvero: Così tra un baccano indescrivibile,
urla scomposte e «tammurriate» che facevano ondeggiare
paurosamente le sovrastrutture delle... carrette, traballando scendevano «pe' Tuledo».Tutte cose messe su senza alcun significato.
Nel 1933, Torre del Greco partecipò alla festa con il suo
caratteristico carro «'A
curallina» costruito su bozzetto dello scultore Vincenzo
Noto.
Il carro rappresentava la parte poppiera di quel tipo di barca adibita
alla pesca del corallo, con l'argano detto «vuocia-vuocio»
che serve a tirare in superficia l'«ingegno»
dopo che questo, strisciando sui «banchi», ha strappato
dalle profondità del mare, il prezioso corallo. Come si vede,
il carro rappresentava anche l'attività industriale di Torre
del Greco.
Ma la parte sentimentale, poetica, musicale, fu la marinaresca canzone
del carro (un pezzo d'antologia degno di figurare tra brani di opere
liriche): «'A
curallina», espressamente composta dal poeta torrese Giuseppe
Raiola (Raimir)
Quanno torna 'sta curallina, -
saje che festa fa Matalena!...
Tira, tira ch' 'a rezza è chiena,
Tira ca vèeene...
"Se scasaje» Napoli (per dire: non restò nessuno in casa) e per poco non «se...scassaje», perchè la voce di Eduardo
Cioffi con quelle del coro (senza microfoni), facevano tremare
i vetri dei balconi (qui mi pare di aver esagerato un po'...).
Dove, invece, non esagero è quando dico che il dominatore
assoluto per parecchi anni, rendendo favolosa la partecipazione
dei torresi alla festa, fu lo scultore Antonio Mennella.
Con la sua arte e con il suo gusto fine, egli dette un significato
ai carri attraverso le sue artistiche composizioni allegoriche.
Il primato dei torresi si era consolidato a tal punto che, lungo
il percorso dei carri, l'interesse maggiore era esclusivamente per
il carro di Torre del Greco. Il pubblico in attesa, con impazienza
domandava: - Ma quanno passa 'o carro d' 'a Torre?!... Poi
quando passava, gli oooh! di ammirazione, facevano eco agli scroscianti
applausi che, assieme ai fiori, ai coriandoli e alle stelle filanti,
piovevano dai balconi.
Non mancavano le espressioni di disappunto e di rabbia mal repressa
degli altri concorrenti o dei loro sostenitori: «O vi'
loco 'o carro d' 'a tina 'e miezzo... vénceno sempre lloro...».
E quando queste parole giungevano alle orecchie dei torresi,
numerosissimi attorno al «loro» carro, i malcapitati,
oltre all'amarezza della sconfitta, «abbuscavano» pure.
I vari comitati rionali di Napoli erano avviliti a tal punto, che
arrivarono a chiedere perfino il «fuori concorso» per
il carro di Torre del Greco.
Nel 1950, i napoletani affidarono la progettazione di un carro ad
un torrese credendo di rompere.... l'incantesimo. Risultato: primo
premio a Torre del Greco (Antonio Mennella); secondo premio al carro
napoletano (Nicola Ascione) ...e così i torresi raddoppiarono
il loro successo.
Non vanno dimenticati i nomi di Salvatore d'Amato: era lui a dare
ai carri, i colori, i toni e le delicate sfumature, e quello di
Antonio Sorrentino, «Tatonno 'o paratore»,
detto «martelluccio d'oro», impareggiabile
costruttore insieme al figlio Vincenzo.
Altri progettisti di carri, furono Antonio D'Auria e Antonio Candurro.
Un particolare curioso e triste: il carro di quest'ultimo (1939)
non uscì mai dallo spazio dei Molini Marzoli, dov'era stato
quasi ultimato. Il 1° settembre, la Germani invase la Polonia:
era l'inizio della seconda guerra mondiale...
A questi nomi ne andrebbero aggiunto un altro, se non temessi di
parlare troppo di me. E debbo dire anche, che quest'articolo eccezionalmente
redatto in prima persona mi dà molto fastidio.
Nel 1954, una ventata dal nord (il vento spira sempre dal nord),
portò a Piedigrotta, provenienti da Viareggio, i carri di
Carnevale e, a proposito di Carnevale, ci fu pure chi voleva trasportare
a Napoli...il Carnevale di Rio de Janeiro...con tutte le sue componenti...
*** *** ***
"Piedigrotta» non
era soltanto la festa, era anche un'industria esclusivamente napoletana:
l'industria della canzone, attraverso le varie case editrici. Queste,
prima e dopo la festa, presentavano nei teatri le così detta
«Audizioni»
delle nuove canzoni di Piedigrotta.
In tutti i teatri napoletani e in quelli della provincia, dall'«Eldorado-Lucia»
nel Borgo Marinaro al «Goldoni» di Bellavista; dall'Arena
Mergellina all'"Ercolano» di Resina; dal «Bellini»
al «Garibaldi» di Torre del Greco, si esibivano gli «assi
della canzone napoletana».
Le tre P della canzone napoletana: Parisi, Papaccio, e Pasquariello,
Elvira Donnarumma, Gilda Mignonetta, Ria Rosa, Armando Gil, Ester
Baroni, Ferdinando Rubino ("acquaiola 'e Margellina, tu
si' overo 'na sciasciona.»...) e come potrei elencarli
tutti ?!
Poi, nel dopoguerra, la Napoli canora scomparve, (mica fessi quelli
del nord) e divennero «città canore», Sanremo,
Venezia e Saint Vincent. Guarda caso tutte località dove,
per alcune eccezioni o preferenze, esistono ancora i «casini»
che, per la vita che in essi si svolge, non sono poi tanto dissimili
a quelli soppressi con la legge Merlin. Anzi...peggio: vi si coltiva
(anche) il vizio più tremendo e deleterio dopo quello della
droga, il giuoco d'azzardo.
Se una volta gli autori, veri poeti e autentici musicisti, si ispiravano,
per le loro composizioni, alle bellezze di Napoli o alle virtù
muliebri della donna amata che a sua volta amava sinceramente, oggi
sono rimasti alcuni lugubri parolieri e qualche strimpellatore di
chitarra per i quali, il motoscafo del contrabbandiere, diventa
il leggendario «Mas» di Luigi Rizzo; la donna generalmente
è una «fraschetta» che tradisce e fà soffrire;
e l'uomo, quasi sempre è un lamentevole «cornuto»
che «chiagne e vvo murì».
Non parliamo della proliferazione dei così detti «complessi»,
roba da chiodi. Che strazio, specialmente quando rimaneggiano le
canzoni napoletane!...
Ora hanno messo le mani sugli antichi cantoni popolari napoletani;
e fossero almeno quelli. Ce n'è uno particolarmente orripilante,
osceno e dissacrante, detto del «rosario». E' una specie
di cantilena eseguita da un coro dalle voci (ripeto: dalle vo -
ci) di invertiti: - «Cum mà dicite, uno, doie, tre
e quattro, cinche, seie, sette e otto, dicite cummà'».
Ogni epoca ha le conzoni che merita e quelle in cui viviamo non
potrebbe essere più mer...itevole.
Dopo l'industria della canzone, quelli del nord, ci hanno tolto,
portandole a casa loro, le industrie degli «spaghetti»,
delle conserve alimentari, delle «pizze» e delle «cozze».
A proposito delle cozze, cìè da segnalare che nel
Settentrione, precisamente sulla riviera marchigiana, dai mitili
escono delle... perle il cui valore si aggira intorno alle quaranta
mila lire ognuna. ("Il Tempo», 28 agosto 1977).
Nel Mer(i)dione invece, mannaggia !, dalle cozze escono soltanto
tifo, colera ed epatite virale...
Ci si è messa anche la Natura ! e vedi un po' che ...- «cozze»
sta combinando!!!...
Riguardo la sporiazione di Napoli, ex capitale di uno stato tra
i più prosperi d'Europa, c'è un canto, veramente antico
e varemente popolare, che i nostri avi cantavano, non senza ragione,
poco dopo il 1860.
Lo riporto dal Molinaro Del Chiaro: «Vittorio, vattenne ca si' 'nu mariuolo, / Chello ch'hé'
fatt'a Napule nu'sta bbuono. / Nàpule hè spugliato
e Turino tu vieste, / Vittorio, fa priesto, vattenne da cca».
Raffaele Raimondo
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