Sempre animati dal proposito di non scrivere ciò che altri
già hanno scritto, non dovrà sembrarvi strano se non
leggerete nulla su "La Ginestra" e su "Il
Tramonto della Luna", le due composizioni poetiche scritte
dal Leopardi a Torre del Greco. Parleremo invece di uno "zibaldone"
che non è quello leopardiano. E' una miscellanea di bugie
truffaldine messa su da Antonio Ranieri per chissà quali
reconditi fini. Bugiardo fino all'inverosimile, il Ranieri provocò
uno strascico che è durato dalla morte del poeta fino ad
oggi e che è destinato a durare ancora, finché a poco
a poco non si convinceranno tutti che il libretto Sette anni
di sodalizio con Giacomo Leopardi, pubblicato dallo stesso Ranieri
nel 1880 è, appunto, uno "zibaldone" di bugie e
di contraddizioni, tanto è vero che proprio l'autore, dopo
la pubblicazione, ne ritirò, distruggendole, gran parte delle
copie.
Cominceremo dai "culturati" moderni, col ricomporre una
delle più colossali "gaffes" giornalistiche mai
accadute.
La sera del 16 luglio 1976, dai microfoni e dalle telecamere del
"TG 2 stanotte", partì la strabiliante notizia
secondo la quale Giacomo Leopardi non morì a Torre del Greco
ma a Napoli.
E chi ha detto mai che il Leopardi morì a Torre del Greco?!
Da oltre un secolo una lapide, murata in Napoli alla Salita S. Teresa
al Museo, sta ad indicare ai passanti la casa in cui si spense il
grande poeta. Eccola:
OSPITE DELLA CITTÀ DI
NAPOLI
NEI QUATTRO ULTIMI ANNI DI SUA
VITA
GIACOMO LEOPARDI
MORIVA IN QUESTA CASA
AI XIV GIUGNO MDCCCXXXVII
Il giorno dopo, 17 luglio 1976, il "Roma", il più
antico giornale napoletano, usciva dalle rotative con la "grande
notizie del secolo".
Occhiello: E non a Torre del Greco - Titolo: Leopardi morì
a Vico Pero - Sommario: Il prof. Saviano, parroco di Ottaviano,
ha trovato l'atto di morte registrato presso la chiesa dell'Annunziata
a Fonseca.
Ecco l'atto di morte conosciuto da tempi immemorabili, da "Ramunno
e tutt" o munno":
A 15 giugno 1837 Don Giacomo
Leopardi conte figlio di Don Monaldo e Adelaide Antici, di anni
38, munito dei Santissimi Sacramenti, a' 14 detto mese, sepolto
id. Deceduto Vico Pero n. 2.
Rileviamo subito che il Leopardi
contava 39 anni (mancavano 15 giorni) e non 38; che NON È
VERO che ricevette i SS. Sacramenti; e che quel "sepolto id.
" (idem) significa che il poeta seguì la stessa sorte
di altri defunti, morti di colera in quei giorni.
La "scoperta" del parroco di Ottaviano fu fatta nel 1888
da Camillo Antona Traversi e nel 1908 dal Padre Gioacchino Taglialatela
il quale in base al detto documento, nel corso di una lunga polemica,
in qualità di religioso ebbe a sostenere che il trapasso
del poeta avvenne con il conforto dei SS. Sacramenti e, in qualità
di uomo, sostenne a spada tratta che Antonio Ranieri disse il falso,
perché la salma del Leopardi non fu mai portata a seppellire
nella chiesa di S. Vitale a
Fuorigrotta, ma inviata, come tutte le altre, al cimitero dei colerosi.
Così dicendo il buon padre, pur essendo un religioso, disse
anche lui la bugia perché, come vedremo, il poeta NON ebbe
nessun conforto religioso.
Il 21 luglio 1976, il "Roma" torna alla carica e conferma
la notizia.
Occhiello: Ha ragione il parroco di Ottaviano - Titolo:
Conferma: Leopardi morì a Napoli - Negli archivi comunali
è custodito il certificato di stato civile: fu rilasciato
dall'aggiunto all'Eletto, Antonio Candida il 15 giugno 1837.
L'articolo, incorniciato su due colonne inclusa una foto del certificato,
incomincia con le seguenti parole:
Nei giorni scorsi abbiamo
pubblicato i risultati di profondi studi compiuti da un sacerdote,
don Luigi Saviano, parroco di Ottaviano, secondo il quale Giacomo
Leopardi sarebbe morto a Napoli e non, come si e sempre affermato,
a Torre del Greco, in frazione Leopardi, dove il poeta soggiornò
e dove, tra l'altro, concepì i sublimi versi de La Ginestra.
Roba da chiodi per non dire da
schiaffi.
La culturale notizia giunge al nord e non può non interessare
gli ambienti letterari di Torino e di Milano.
Dalla capitale dell'automobile, esce il settimanale "Tuttolibri",
edito da "La Stampa", in cui si parla di tutti i campi
dello scibile umano e di cultura italiana e mondiale. Direttore
Arrigo Levi (si, si, proprio lui), vice direttore Carlo Casalegno
e altri culturati redattori. Il settimanale reca la data del 31
luglio 1976. Leggete:
Leopardi e il curato - Napoli,
luglio.
Giacomo Leopardi non è morto a Torre del Greco, come si è
sempre creduto, ma a Napol4 sostiene un curato di Ottaviano, don
Saviano. La notizia non mancherà di suscitare interesse e
polemiche.
Indi è riportato il famigerato
atto di morte nel quale si afferma che il poeta morì a vico
Pero n. 2, per concludere che:
Secondo don Saviano, Leopardi
sarebbe morto in quel vicolo napoletano, mentre il suo fedele amico,
Antonio Ranieri, lo stava portando a Torre del Greco in carrozza.
Da Milano replica "L'Europeo"
(N. 32, 6 agosto 1976) con un articolo di Gian Franco Vené,
dal titolo:
SCUSI, CHE FINE HA FATTO LEOPARDI?
- Un parroco umanista ha dedicato dieci anni per 0ricostruire le
peripezie del cadavere di Leopardi, morto di colera in un vicolo
di Napoli e destinato, secondo la legge, alla fossa comune.
Gian Franco Vené getta
la ciambella di salvataggio a don Luigi Saviano e, attraverso una
tortuosa e lunga serie di ripetizioni che sono sempre le stesse
fregnacce di Antonio Ranieri, fa capire che don Saviano non si era
mai sognato di " scoprire " l'atto di morte nella chiesa
dell'Annunziatella a Fonseca, ma di aver scoperto l'atto di battesimo
ANCH'ESSO INEDITO, nell'archivio della parrocchia di S. Maria Morello
in Recanati, dal quale risulta pure che il Leopardi, oltre a Giacomo,
aveva altri quattro nomi e cioè: Taldegardo, Francesco Salesio
(Sales), Saverio e Pietro. Che l'intervento del Vené, spontaneo
o sollecitato, aveva lo scopo di trarre dal marasma in cui si era
cacciato il povero don Saviano, non tanto per colpa sua, ma per
l'ignoranza dei culturati, è dato dal fatto che l'ottimo
giornalista de " L'Europeo ", alla firma fa seguire il
seguente corsivo:
P.S. Povero, caro don Luigi
Saviano, erudito Lei si è alquanto rammaricato perché
la radio e la TV hanno frainteso le sue ricerche e le hanno attribuito
l'arcinota notizia che Leopardi morì a Napoli anziché
a Torre del Greco. La TV non è l'Accademia dei Lincei, e
si sapeva. Ma guardi qua, don Saviano, il numero di Tuttolibri del
31 luglio '76. Quelli di Tuttolibri dovrebbero sapere quasi ogni
cosa. Ahimè, non solo ribadiscono che lei ha scoperto quel
che Antonio Ranieri già raccontò sul finire del secolo
scorso nel suo libro su Leopardi; ma le fanno scoprire, don Saviano,
che Leopardi è morto in carrozza. Hanno scambiato il capezzale
con la cassa inchiodata, il genio immortale col morto. E loro sono
laureati, don Saviano.
Dal tono affettuoso del Vené,
col quale si rivolge al parroco di Ottaviano, quasi lascia supporre
che siano compaesani.
E nemmeno la partecipazione della nascita del Leopardi che lo stesso
don Saviano avrebbe trovata nell'archivio Cavalli di Ravenna era
inedita, perché il documento, in fotografia, era stato già
pubblicato nell'Enciclopedia Cattolica, 25 anni prima che don Saviano
lo rinvenisse...
Tanto rumor per nulla? - voi dite. Eh no! Don Luigi Saviano, prima
di essere un leopardiano accanito, è un pio sacerdote e fa
salti mortali e acrobazie da alta scuola nell'intento di dimostrare
che non solo il poeta in punto di morte ricevette i conforti religiosi,
ma anche che era credente, era pio e religioso, che indossava perfino
un sacro abitino. E che, inoltre, in una lettera scritta al padre,
due settimane prima di morire, il 27 maggio 1837, concludeva con
queste parole:
e prego !oro tutti a raccomandarmi
a Dio.
Insomma, don Saviano ricalca
le orme di padre Gioacchino Taglialatela.
Del resto non è il solo caso, anche a Genova un altro sacerdote
è impegnato in accurate ricerche per dimostrare che il poeta
Guido Gozzano non era un ateo, ma che, addirittura, era terziario
francescano. Il compito del prete genovese si presenta più
facile: don Vittorio Cambiaso potrebbe essere più fortunato
di don Saviano. Egli ha sempre a disposizione le lettere d'amore
della poetessa Amalia Guglielminetti e da quelle potrebbe anche
" scoprire" se Guido Gozzano, sul corpo nudo portava il
cilicio o il cordiglio... Amalia lo sapeva di sicuro, perché
con Guido, insomma, beh, lasciamo andare...
Per il Leopardi non c'è nessun appiglio e le bugie, come
disse il Beato Vincenzo Romano, sono sempre peccati. Le pecorelle
all'ovile si portano quando sono vive, non quando sono morte e già
puzzano. Nella vicenda del Leopardi due uomini soltanto brillano
per la loro onestà: il medico Nicola Mannella e l'agostiniano
scalzo, padre Felice; tutti gli altri disonesti, corrotti, corruttori,
mentitori e falsificatori. Eppure, non si crederebbe, non c e stato
nessuno che non ha creduto in tutto o in parte alle menzogne di
Antonio Ranieri; menzogne che poi non occorre troppa fatica per
smascherare. Basta seguire il filo della logica, senza bisogno di
"scoprire " niente, e senza presunzione alcuna, anche
perché non siamo laureati come i giornalisti professionisti
di "Tuttolibri". Basta pensare che nell'Enciclopedia
delle Vite Illustri a cura di Cesare Resmini, edita dal De Vecchi,
Milano 1965, a pag. 281, si legge proprio così:
"LEOPARDI Giacomo, Recanati, 1798 - Torre del Greco (Napoli),
1837".
Alla faccia della cultura e di tutti i mass media.
* * *
Leopardi morì il 14 giugno 1837, mentre a Napoli infuriava
una terrificante epidemia di colera. Al momento del trapasso, sempre
se e vero ciò che scrive Antonio Ranieri (perché di
questi occorre prendere tutto con le molle) erano le ventuno italiane,
vale a dire le cinque del
pomeriggio. Se fosse morto invece alle ventuno italiane del 14 dicembre,
sarebbero state le due del pomeriggio. Un altro esempio: Il Beato
Vincenzo Romano mori alle diciotto italiane del 20 dicembre ed erano
le li del mattino, se fosse stato in giugno sarebbero state le due
del pomeriggio. Molti scrittori non l'hanno ancora capito (cfr.
Giovanni Artieri Penultima Napoli Milano 1963, pag. 315).
L'Artieri, specialmente come napoletano, queste cose le avrebbe
dovuto sapere e non parlare di " crepuscoli lunghi e strisce
di chiarore ", anche perché il Ranieri lo specifica
bene nel Sodalizio. A quei tempi, per indicare le ore 21,
cioè le nove di sera, occorreva specificare che era l'ora
di Francia. Per noi invece è l'ora... di riprendere il filo
del discorso.
Antonio Ranieri scrisse le sue balle, prima nel 1845, poi in un
"supplemento", nel 1847, ed infine nel Sodalizio
nel 1880, sempre per sostenere che il suo amico non morì
di colera e che la salma fu risparmiata dall'essere gettata nella
fossa comune, mentre in realtà le cose andarono proprio così:
il Leopardi morì di colera e la salma nella fossa comune
andò a finire.
Fin da quando avvennero i fatti nessuno mai credette a quanto diceva
il Ranieri, e quindi ancora prima che scrivesse le sue "memorie".
Primo fra i tanti, Ferdinando Petruccelli della Gattina che finse
di essere andato di notte nel cimitero dei colerosi e non avendo
trovato la tomba del Leopardi, aveva attaccato ad una croce anonima
un pezzo di carta con la scritta qui sta sepolto Giacomo Leopardi.
Non ci credette la poetessa Giuseppina Guacci-Nobile, non ci credettero
i Gesuiti, tanto per citarne alcuni.
Antonio Ranieri, con la complicità dei suoi familiari e della
servitù, fin dal mattino del 14 giugno, per allontanare il
sospetto che in casa sua ci fosse un coleroso, fece sostare la carrozza
con il cocchiere "Danzica" all'angolo del Vico Pero sulla
strada di S. Teresa, per far credere al vicinato che si era in procinto
di partire per Torre del Greco, mentre invece il povero Giacomo
stava morendo di colera.
Occorreva inventare qualche altra cosa per far credere che il poeta
stava bene con il pancino, ed ecco che il Ranieri scrive che Leopardi
la notte avanti il 14, aveva sgranocchiato tre libbre (963 grammi)
di confetti di Sulmona e che mentre stava in procinto di "partire"
...per Torre del Greco, ingurgitava una specie di brodaglia alternata
con un'abbondante granita fredda, cose impossibili per un ammalato
di colera. Il Ranieri DOVEVA far credere che il poeta si spense
per morte repentina, e quindi occorreva inventare ancora dell'altro
per non far capire che il poeta agonizzava. Allora pensò
di "farlo parlare". Ed ecco come scrive:
Era già scodellata la minestra. Ed egli postosi a sedere
a mensa PIU' GAIO DEL SOLITO, n'aveva già tolte due o tre
cucchiaiate, quando rivòltosi a me che ero seduto allato:
Mi sento un pochino crescere l'asma - mi disse - si potrebbe riavere
il Dottore?.
Il Ranieri così continua:
Questi era il professor NICCOLÒ
MANNELLA, ch' era stato il più assiduo e il più affettuoso
de suoi curanti: uomo d'aurea scienza e di più che aurei
costumi medico ordinario del principe reale di Salerno.
E perché no? - gli risposi. Anzi andrò di persona
per esso.
Era uno dei più memorabili giorni della mortalità
cholerica: e non mi parve stagione da mandar messi... Andai con
la carrozza medesima che ci attendeva, affidandolo a' miei massime
alla mia sorella Paolina. E togliendo l'instancabile MANNELLA di
tavola, fummo di volo a casa ... dove, quando io sopraggiunsi col
MANNELLA, lo trovammo neanche a giacere, ma solamente sulla sponda,
con alcuni guanciali di traverso che lo sostenevano.
Scrive ancora il Ranieri che
Leopardi era vestito e nel frattempo che lui era andato a chiamare
il dottor MANNELLA, il poeta per ben tre volte aveva fatto la spola
tra il letto e la tavola per potersi sollevare... col cibo.
Il MANNELLA (seppure è vero che lo andò a chiamare)
tirò Ranieri in disparte ammonendolo di mandare incontamente
per un prete; che di altro non v'era tempo.
Ed io incontamente mandai
e rimandai e tornai a rimandare al prossimo convento degli agostiniani
scalzi
scrive di seguito il Ranieri.
Egli non nomina e ne nominerà più il dottore MANNELLA,
il cui compito, si badi, si limitò soltanto a poche convenevoli
parole e le ultime furono: mandate a chiamare subito un prete, perché
di altro non c e tempo. Il medico che pur lo aveva in cura da quattro
anni, non disse di che male stava morendo il suo paziente che, a
dir del Ranieri, meno di un'ora prima s'era seduto a mensa più
gaio del solito. E nemmeno sappiamo se " l'aureo "
dottor MANNELLA se ne tornò a piedi al Largo di Palazzo dove
egli abitava nel palazzo del principe di Salerno, o se il cocchiere
"Danzica" lo riaccompagnò con la carrozza.
La verità, come sempre, è una soltanto, e Antonio
Ranieri si guardò bene dal dirla: egli voleva che il dottore
NICCOLÒ MANNELLA (questo nome tenetelo bene in mente) gli
rilasciasse un certificato dal quale DOvEVA risultare che il Leopardi
NON era morto di colera. E dato il carattere irreprensibile del
MANNELLA, dovettero volare anche parole grosse.
Un altro battibecco avvenne con il frate agostiniano, venuto per
assistere il moribondo che intanto era già morto. Ma sentiamole
le fregnacce del Ranieri:
In questo mezzo il Leopardi
mentre tutti i miei gli erano intorno, la Paolina gli sosteneva
il capo e gli asciugava il sudore che veniva giù a goccioli
da quell'ampissima fronte, ed io, veggendolo soprappeso da un certo
infausto e tenebroso stupore, tentavo di ridestarlo con gli aliti
eccitanti or di questa or di quella essenza spiritosa; aperti più
dell'usato gli occhi mi guardò più fisso che mai.
Poscia:
-Io non ti veggo più - mi disse come sospirando. E cessò
di respirare; e il polso né il cuore non battevano più.
Come in tutte le rappresentazioni
teatrali dove non c e nozione di tempo, ndrànghete,
il Ranieri fa entrare dalla comune il frate agostiniano. E dopo
che egli stesso aveva constatato il decesso del poeta... pretende
che il monaco somministri al morto i SS. Sacramenti. Padre Felice
toccò e ritoccò il polso e il cuore e disse: - Quest'anima
è già trapassata. Il Ranieri voleva far credere
al monaco che il Leopardi fosse
ancora vivo, malgrado egli stesso ne aveva constatata la morte,
e infatti lo scrive pure:
La state sparpaglia, come
il verno riunisce. E quella state sparpagliò più che
altra. La mia famiglia mio zio il parentado tutto, erano, chi di
qua e chi di là, per la campagna. Si mandò per chi
si potette. Sopraggiunse chi fu trovato; la prima, mia sorella Ferrigni;
l'ultimo il prete. MA TARDI TUTTI
Se le persone non sopraggiunsero con la velocità di Pietro
Mennea nei 200 metri piani, vuoi dire che se la sorella Ferrigni
arrivando per prima, arrivò TARDI, il prete (che invece era
un monaco) arrivando per ultimo, arrivò ANCORA PIÙ
TARDI. Eppure il Ranieri voleva che il monaco somministrasse i Sacramenti
ad un morto.
Apadre Felice non interessavano le cose terrene, egli s'intendeva
di anime non di corpi. A lui non importava di che male era morto
il Leopardi e, dopo di aver pregato al capezzale del defunto, scrisse
il biglietto da servire al parroco dell'Annunziata a Fonseca per
la registrazione nel libro dei defunti di quella parrocchia. Lo
riportiamo dalle " memorie " dello stesso Ranieri.
Si certifica al signor parroco,
qualmente istantaneamente è passato a migliore vita il conte
Giacomo Leopardi di Recanati al quale ho prestato l'ultime preci
de' morti: ciò dovevo, e non altro. Firmato padre Felice
da Sant'Agostino, agostiniano scalzo.
Il giorno dopo, 15 giugno 1837,
il Ranieri riuscì a perpetrare la truffa con la complicità
di amici compiacenti e disonesti.
Il primo, fl parroco dell'Annunziatella, il quale non tenne conto
della certificazione di padre Felice e così registrò
la morte del Leopardi:
A' 15 giugno 1837 Don Giacomo
Leopardi conte, figlio di Don Monaldo e Adelaide Antici di anni
38, munito dei SS. Sacramenti a' 14 detto mese, sepolto idem. Deceduto
Vico Pero n. 2
Rimediata la prima bugia con
la complicità del parroco della Nunziatella a Fonseca, occorreva
ancora il certificato di morte redatto da un medico. Si trattava
di trovare qualcuno disposto a dichiarare ciò che il dottore
MANNELLA si era rifiutato di fare. Ed ecco che il Ranieri trova
anche quello nella persona di un medico compiacente, un certo dottor
STEFANO MOLLICA, che mai prima aveva visitato il Leopardi. Ed ecco
il falso certificato medico:
Io professor aiutante della Regia Università ho assistito
a medicato il nominato conte Giacomo Leopardi di Recanati affetto
da idropericardia e sebbene praticato tutti i mezzi che arte suggerisce,
questi essendo riusciti inutili ha cessato di vivere verso le 21
italiane; ed in fede STEFANO MOLLICA - Napoli 14 giugno 1837
Da dove uscì questo Stefano
Mollica? Quando praticò "tutti i mezzi che arte suggerisce",
se a vedere per ultimo il Leopardi fu il dottor NICCOLÒ MANNELLA?
e se lo stesso Leopardi, un'ora prima era seduto a mensa PIÙ
GAIO DEL SOLITO, prima che accadesse l'irreparabile? E perché
il nome di questo Stefano Mollica, figura soltanto nel certificato
e non pure, magari una sola volta, nelle " memorie " di
quel fregnacciaro che fu Antonio Ranieri?
Eppure c e ancora chi ci crede, specìalmente i cosìddettì
leopardisti. Credono ancora alla tomba nella chiesa di San Vitale
a Fuorigrotta e a quella nel parco Virgiliano a Mergellina, dove
non c'è stato maì niente.
Chi era Stefano Mollica? Perché volle aiutare il Ranieri
a truffare i gonzi e la storia? Tutti quei falsi del resto non sarebbero
serviti a nulla, perché nelle fosse comuni andavano a finire
tutti, anche chi era morto per un semplice starnuto. Bastava allargare
le ricerche sul "patriota" Stefano Mollica amico del "patriota"
Antonio Ranieri, per accertare il falso commesso dai due "patrioti".
Qualcosa riuscirono a fare, se si pensa che Giovanni Artieri in
Penultima Napoli, nel 1963, e ancora in Napoli punto e basta?,
nel 1980, cade nella trappola e scrive: Non molto tempo dopo
Antonio Ranieri ritornò col medico Stefano Mollica che doveva
abitare lì presso, e abbiamo visto che ritornò
invece col medico Niccolò Mannella. Ma più di trappola,
si tratta di una grossa cantonata presa da Giovanni Artieri.
Sentiamolo:
A Napoli, di giugno, i crepuscoli
durano a lungo. Dalla collina di Capodimonte dovevano vedersi nel
cielo percorso dai voli delle rondini ancora larghe strisce di chiarore.
Erano le otto o le nove di sera.
Erano invece le cinque del pomeriggio, scusate la ripetizione.
In questo arrivò il padre Felice da Sant'Agostino, agostiniano
scalzo. Guardò il medico Mollica che teneva ancora il polso
del Poeta, guardò Antonio, disperato, che non volendo credere
alla realtà lo invitò a verificarla, sperando. Non
c'era che da pregare e tutti pregarono. Il monaco rilasciò
il certificato di morte che conosciamo ed è esposto in cornice
alla Villa Ranieri di Torre del Greco. Il dottor Mollica andò
via subito.
Il dottor Stefano Mollica non vide mai
il Leopardi, né in qualità di paziente, perché
non l'ebbe mai in cura, né tantomeno nell'afoso pomeriggio
del 14 giugno quando il poeta morì di COLERA. Il certificato
di morte esposto nella villa di Torre del Greco (che non è
stata mai di proprietà dei Ranieri) è la truffa perpetrata
da Ranieri e da Mollica nel 1837, ai quali si aggiunge oggi, involontariamente,
Giovanni Artieri.
I medici che prestarono le loro cure al malconcio Leopardi furono
due, e SOLTANTO DUE: il dottor NICCOLÒ MANNELLA e il professore
POSTIGLIONE.
Il primo era il medico personale di Leopoldo di Borbone, principe
di Salerno, zio di re Ferdinando II, e abitava, come già
accennato, nel palazzo detto appunto Salerno dove oggi c'è
la sede del Comando Militare Territoriale. Durante l'estate però
il medico si trasferiva assieme al principe nella villa " La
Favorita " a Resina. Il secondo, il professor Postiglione (bravo
chi riuscirà a rintracciarne il nome) abitava in Via Atri,
una traversa tra la Via della Sapienza e Via Tribunali verso la
Pietrasanta. Giovanni Artieri sfratta il Postiglione dal palazzo
di sua proprietà, gli fa fare 'o quatto 'e maggio,
e lo trasferisce ipso facto, da Via Atri a Toledo, nella
sua casa di palazzo Berio.
Ci perdoni l'ottimo scrittore Giovanni Artieri: egli ha preso il
dottor Stefano Mollica per il dottor Niccolò Mannella.
Il Mollica non fece altro che copiare il testo del certificato dalla
bozza che il Ranieri gli aveva già preparata. E questo avvenne
certamente nello studio del Mollica nella Regia Università,
il giorno 15 giugno, quando il Ranieri sguinzagliò i suoi
due fratelli per tutta Napoli per procurarsi i "documenti".
E il dottor Mollica si mise a disposizione... con tanti saluti a
Don Antonio, cospiratore antiborbonico come lui. Ed ecco il dottor
Stefano Mollica. Ve... lo presentiamo, dato che nessuno finora l'ha
fatto, mentre avrebbero dovuto farlo da un secolo almeno, per smascherare
la falsità di quel certificato medico in cui sì parla
di idropericardia e di tutti i mezzi che arte suggerisce,
e quando e accertato che l'estensore di quel certificato non visitò
MAI l'ammalato.
Stefano Mollica era un medico siciliano. Oltre ad essere stato aiutante
nella Regia Università, contemporaneamente o dopo, era chirurgo
del primo battaglione della Guardia Nazionale, percepiva lo stipendio
dal re e poi cospirava contro lo stésso monarca, era "patriota".
Il 15 maggio del 1848, lo troviamo sulle barricate di Toledo e fu
proprio lui, con la sua intemperanza, a provocare una carneficina
orrenda che in fondo nessun patriota voleva, anche perché
inutile.
La truppa schierata aveva avuto l'ordine di non aprire il fuoco.
Anzi il re venuto a conoscenza delle barricate aveva detto:
- "Embé? E che so'sti barricate? Ma sti pazze che
vonno fa'? Scennite mmiez' 'a strata e vedite d' 'e persuadé'
a nun fa' succedere guaie!".
Il Mollica ammazzò il capitano delle guardie svizzere Amedeo
de Muralt, sparando su di lui per ben tre volte. La prima volta
lo colpì ad una mano asportandogli tre dita, la seconda ad
una scapola ed infine alla fronte (cfr. S. Di Giacomo il Quarantotto;
P. Calà- Ulloa Ferdinando II di Borbone; D. Capecelatro Gaudioso
Ottocento Napoletano).
Non valse a nulla l' opera di persuasione dei veri patrioti, quali
il
generale della Guardia nazionale, Gabriele Pepe, il vice presidente
della Camera dei Deputati, Vincenzo Lanza, e Luigi Settembrini tornato
dall'esilio da pochi giorni. Sarà proprio il Settembrini
a scrivere:
E tutto questo per pochi stolti scapigliati che hanno voluto
le barricate, non per combattere no, ma per ispaurire un uomo che
era sdegnato, e aveva soldati e cannoni, e animo di Borbone, ed
essi volevano farlo fuggire con le grida e le minacce.
Il dottor Stefano Mollica, nel processo celebrato nel 1853, difeso
dal giovanissimo avvocato Enrico Pessina fu condannato a 25 anni
di ferri. Alla fine del 1858, Ferdinando, in occasione del matrimonio
di "Franceschiello" con Maria Sofia di Baviera, liberò
tutti i condannati per i fatti del 1848-49, e li mandò in
esilio perpetuo.
Stefano Mollica riparò in Piemonte (e dove volevate che riparasse?)
e nel 1859 lo rivediamo al seguito delle truppe piemontesi, il cosiddetto
esercito tosco-emiliano, col grado di chirurgo maggiore. E qui perdiamo
le tracce del medico compiacente perché " patriota "
come il Ranieri. Altra truffa perpetrata dal Ranieri è una
lettera diretta al padre del Leopardi, conte Monaldo, il quale aveva
espresso il desiderio che il suo figliuolo tornasse a Recanati in
seno alla famiglia. Occorre precisare subito che si tratta di tre
lettere: la prima datata Napoli, 13 giugno 1837; la seconda datata
17 e la terza in data 26 dello stesso mese. Tre lettere in pochi
giorni. La seconda e la terza si conservano in casa Leopardi a Recanati.
Della prima " si dice " che l'originale andò disperso
in casa Leopardi. Ma guarda un po', alla Biblioteca Vittorio Emanuele
di Roma (le biblioteche italiane sono tutte intitolate a Vittorio
Emanuele) esistono IN COPIA tutte e tre le lettere. La seconda e
la terza corrispondono fedelmente ai due originali di Recanati.
Della prima, ma guarda che combinazione!, a Roma esiste la copia
e a Recanati " andò disperso " l'originale...
La verità è che a Recanari la prima lettera non arrivò
mai, perché MAI fu spedita. Furono spedite soltanto due lettere,
quella in data 17 e quella in data 26 giugno 1837, cioè successivamente
alla morte del poeta, avvenuta il giorno 14 giugno, e perciò
le DUE lettere si trovano a Recanati. Alla biblioteca romana sulla
busta che contiene le tre COPIE si legge:
Fascicolo in cui si comprendono n. 3 lunghissime lettere APOGRAFE
d' Antonio Ranieri al Conte Monaldo Leopardi.
Appartenevano al noto letterato romano,
che poi era di Orciano (Pesaro), Salvatore Betti (1792-1882) che
raccoglieva e conservava tutte le scritture che riteneva importanti,
e che quando non riusciva ad avere gli originali se ne procurava
copie fedeli.
La lettera del 13 giugno 1837 è certamente retrodatata, e,
se non è opera di un pataccaro, è un'altra diabolica
trovata di Antonio Ranieri.
È il 13 giugno, giorno in cui ricorre la festività
di S. Antonio di Padova; il colera fa strage della popolazione napoletana
e di quella della provincia; in casa Ranieri si fanno i preparativi
per la "partenza" per Torre del Greco (si fa per dire:
Leopardi in preda agli effetti del colera, sta per "partire"
per conto suo, ma non per Torre del Greco); il 13 giugno, il suo
onomastico, in mezzo a quel marasma, a don Antonio, proprio allora,
gli vien voglia di scrivere una lettera al conte Monaldo per informarlo
sullo stato di salute del figlio Giacomo e fargli sapere che all'indomani
lo avrebbe condotto a Torre del Greco..
Stralciamo dalla lettera apografa la parte che più ci interessa
ai fini della nostra indagine, anche per ribadire ancora una volta,
se ancora occorresse, che il medico Stefano Mollica non vide mai
il poeta, né gli praticò " i mezzi che l'arte
suggerisce", e che con il suo compiacente certificato attestò
IL FALSO. Quale " idropericardia"???!!!
Altra cosa strana è che nella lettera si leggono cose che
il conte Monaldo, alla data del 13 giugno 1837, già conosceva
da parecchio tempo, e quindi era inutile ripetere. La lettera, mai
esistita in originale, fu redatta in " copia " molti anni
dopo la morte di Leopardi e retrodatata per anteporla alle altre
due " copie", in modo da mettere il minor spazio di tempo
possibile tra la stesura della lettera e la morte del poeta e dimostrare
che il Leopardi non morì di colera, ma repentinamente...
per "idropericardia".
Napoli 13 giugno 1837 Gent.
Sig. Conte il dì quindici di maggio, egli si levò
smanioso dal letto con un fiero affanno, che gl' impedì per
più notti di giacere, e lo gettò in una grandissima
prostrazione di forza. Io non mancai di chiamar subito il Dottor
Mannella, medico di corte, professore e clinico di rara sapienza
ed esperienza, e che ha un particolare conoscimento della complessione
di lui, perché lo cura oramai da quattro anni. Il Mannella
mi dichiarò, che quell' affanno era una minaccia d' idropisia,
o per parlare più esattamente, d' idropericardia, gli ordinò
assai medicine, dalle quali ha già ritratto qualche utilità,
ma mi aggiunse esser quella una malattia derivante in sostanza da
ragioni di struttura, e forse gentilizia (?!) ragioni accresciute
dal lungo studio e dall' età; nella qual malattia l' arte
aveva poco da fare, ma molto potea fare la natura; che l' aria dei
dintorni del Vesuvio massima quella di Torre del Greco, famosa per
simile sorta di malori, poteva sola salvarlo
(il dottor Mannella fin da quando il Leopardi giunse a Napoli, nell'ottobre
del 1833, aveva diagnosticato: tubercolosi). E ancora:
Il caso mi parve grave, e non volli stare al giudizio di un solo,
benché io non conoscessi nessuno qui di cui mi fidassi più
di lui. Chiamai il dottor Postiglione che è la prima riputazione
medica della città, e il Postiglione mi confermò ad
litteram tutto il detto del Mannella, aggiungendo solo che molto
gli sarebbe piaciuta una cura di latte d'asina. Li riunii finalmente
entrambi: e fu concluso che l'esperimento del latte d'asina sarebbe
prolungato (vuoi dire rimandato) insino al finir del cholera, che
ora infierisce qui spaventosamente; non essendo prudenza di esporre
in questo frangente il malato a una diarrea nel caso possibile che
il latte non gli giovasse.
Dopo ciò, dimani io lo condurrò alla villetta d'un
mio parente sulla falda proprio del Vesuvio, comperata dai suoi
maggiori assegnatamente come il più miracoloso rimedio dell'idropisia...
Il Ranieri più oltre finge
(e noi fingiamo per un attìmo di credere) che la " lettera",
proprio quella che non giunse mai a Recanati, gli era stata imposta
dal poeta:
Ma infine Giacomo mi ha imposto
di scrivergliene; ed io che mi sono proposto, da sette anni che
egli convive meco, di contentarlo in tutto, non l'ho voluto scontentare
né anche in questo. Ella può esser certa, che tutto
quello che è possibile ai mortali> tutto è stato,
è, e sarà fatto in pro del suo figliuolo, e dell'
unico amico che la Provvidenza mi ha conceduto, al quale sopravvivere
sarebbe un problema di non facile risoluzione...
Ed infatti, per risolvere il
"problema", don Antonio Ranieri impiegò oltre mezzo
secolo: morì a Portici il 4 gennaio 1888. Il problema, come
si vede, fu veramente di difficile risoluzione.
Di questa presunta lettera, ripetiamo: IN COPIA, Si venne a conoscenza
soltanto nel 1899 (milleottocentonovantanove), quando venne pubblicata
da un certo Gennaro Buonanno in un opuscolo fatto stampare in occasione
delle nozze Martini Marescotto-Ruspoli, avvenute in Roma. Non si
è mai saputo, né si saprà mai, perché
esiste la copia e non l' originale, o meglio ora lo sappiamo: una
delle tre copie, precisamente quella che reca la data del 13 giugno
1837, non era una copia e fu scritta molti anni dopo e retrodatata;
per quale scopo, lo abbiamo già detto.
Antonio Ranieri " lavorava" più per i posteri che
per i contemporanei, a cui non riuscì mai a darla a bere.
Egli pensava: col passare degli anni e con la morte di tutti i testimoni,
va a vedere chi ha menato stu turzo. Chi mai potrà spiegare
perché esistono DUE lettere autografe e TRE apografe. Diranno
che un originale " andò disperso in casa Leopardi a
Recanati "... tanto la raccomandata con ricevuta di ritorno
a quei tempi non esisteva. E guarda caso andò " disperso
" proprio l'originale in data 13 giugno 1837!...
Giacomo Leopardi era giunto a
Napoli il 2 ottobre 1833...
L'epidemia di colera, per la prima volta in Europa, ebbe inizio
a Napoli il 2 ottobre del 1836 quando un doganiere del porto fu
colpito dal male. Immediatamente furono prese tutte le misure per
arginare il diffondersi del morbo. Primo provvedimento, preso personalmente
da re Ferdinando Il, fu il divieto assoluto di seppellire i morti,
anche se deceduti per qualsiasi altra malattia, oltre che nelle
chiese, in qualsiasi punto della città, se non in due precisi
luoghi appositamente allestiti: uno a Poggioreale e l'altro in una
vasta cava di tufo abbandonata, sita nella zona detta delle Fontanelle.
All'ordine rigorosissimo e alla fitta rete di controlli fissi e
volanti non sfuggì nessuno. Morti di colera e non, tutti
nelle fosse comuni, nudi e nella calce viva.
Tempestivamente vennero istituiti sette ospedali con oltre quattro-mila
letti, decine di migliaia di lenzuole e camici, oltre sessanta punti
di soccorso distributi nei dodici quartieri della città.
Cantaia su cantaia di disinfettanti affluivano in ogni dove. Oltre
a tutto ciò, venne istituito un lazzaretto sull'isolotto
di Nisida (cfr. Giuseppe Russo Napoli come città, ivi 1966,
pp. 179-80). Durante l' epidemia, che si estinse soltanto nel settembre
del 1837, morirono all' incirca 20.000 persone, di cui 18.000 furono
seppellite a Poggioreale e il resto alle Fontanelle, come indicano
le lapidi murate nei due luoghi.
Al cimitero dei colerosi a Poggioreale:
Dieciottomila umane spoglie
consunte dall' ineluttabile flagello
apparso il 3 di ottobre 1836
furono qui deposte
Al cimitero delle Fontanelle:
Napoletani!
quest'ossario che contiene
dei nostri antenati le meschine spoglie
e questo tempio
sorto per pietà di sacerdoti e di popolo
... è ricordo funesto della lue asiatica
del 1836
e monito di cristiana pietà ai posteri.
Se vogliamo calcolare la breve
distanza che intercorre tra questo sito e la casa in cui morì
il Leopardi, si può facilmente desumere che proprio qui vennero
seppelliti tutti i morti della zona circostante, ivi compresi quelli
della parrocchia dell'Annunziata a Fonseca, e quindi anche il poeta,
come risulta anche dal registro dei morti di detta parrocchia, la
cui giurisdizione era compresa nella sezione municipale Stella.
Presso l'ufficio di stato civile di questa sezione i fratelli di
Antonio Ranieri, Giuseppe e Luca, alle ore " quindici e
mezza " (Ore 11,30) col certificato falso del medico Stefano
Mollica, andarono a denunziare il decesso del poeta avvenuto il
giorno prima, per... " idropericardia ".
Ripetiamo: Antonio Ranieri " lavorava " per il futuro.
Si preoccupò in tutta la sua vita di far credere che il Leopardi
non morì di colera per giustificare meglio l'unica eccezione
su ventimila morti, ma poi egli stesso scrisse nel 1845, in una
specie di supplemento, quanto segue:
Il suo cadavere, salvato, come per miracolo, dalla pubblica e
indistinta sepoltura dove la dura legge della stagione CONDANNAVA,
O APPESTATI O NON, I GRANDISSIMI E I PICCOLISSIMI, fu seppellito
nelle chiesetta suburbana di San Vitale su la via di Pozzuoli.
Il miracolo del " salvataggio
" (!!!) lo raccontò poi Amerigo de Gennaro-Ferrigni
nella commemorazione che egli fece il 15 giugno 1896, dopo sessant'anni.
Ecco come nel breve spazio di 24 ore si sarebbero svolti i fatti.
Cose da pazzi! Eppure c'è ancora chi ci crede.
Occorre tener presente che tutti i membri della famiglia Ranieri,
durante la notte tra il 14 e il 15 giugno, ebbero ben poco da fare,
se non piangere la perdita dell'"amico", del "fratello",
del "padre" e via dicendo, e che col trascorrere delle
ore il tempo a disposizione si ridusse sensibilmente.
Un'altra cosa importantissima da considerare è che il Leopardi
venne fuori negli ambienti culturali napoletani Soltanto dopo il
1860, e che nel tempo in cui visse a Napoli era quasi del tutto
sconosciuto. Sentiamo a proposito il letterato e senatore del Regno
d'Italia, Bonaventura Zumbini-1836-1916 (ai torresi intanto diciamo
che fu lui a dettare l'iscrizione della lapide murata sull'edificio
del municipio di Torre del Greco, l'8 giugno 1899, a ricordo del
secondo centenario del riscatto baronale).
Ma se ci ebbe
i suoi fervidi ammiratori, non si può dire che il Leopardi
fosse allora in Napoli tenuto in pregio così generalmente
come in qualche altra regione d'Italia; anzi per certo che molta
parte della stessa gente più colta non intendesse appieno
la sua grandezza.
A sentire Amerigo de Gennaro-Ferrigni e tutti i corifei venuti dopo,
i fatti si sarebbero svolti addirittura sotto la protezione e con
la complicità del ministro di polizia Francesco Saverio Del
Carretto, perché questi era... " amico dei poeti "...
Il De Gennaro-Ferrigni (1856-1907) sapeva del "salvataggio"
della salma del Leopardi dalla fossa comune per averlo appreso dallo
zio Giuseppe Ranieri che gli aveva raccontato... la favola seguente:
La sera del 15 giugno 1837 dal Vico Pero sarebbero partite tre carrozze.
Nella prima c'era la cassa contenente la salma del poeta; nella
seconda c'erano il medico Mollica e i due fratelli Giuseppe e Luca
Ranieri. La terza carrozza era di riserva.
Il De Gennaro-Ferrigni precisa pure che la cassa venne posta di
traverso nella carrozza con le due estremità che sporgevano
dagli sportelli aperti. Giovanni Artieri parla addirittura di una
bara di noce massiccio con una targa di bronzo dorato col nome
di Giacomo Leopardi e le due date estreme della sua esistenza,
tutte cose MAI ritrovate.
Fingiamo per un poco di credere alle tante bùbbole raccontate
e seguiamo Giovanni Artieri che le ripete aggiungendovi molta fantasia.
Ranieri aveva messo in moto le sue amicizie, per salvare Giacomo
dalla fossa comune, alla quale due giorni prima era pur stato gettato
il ministro della Guerra in carica, morto per colera. (si tratta
del generale Fardella che non morì due giorni prima di Leopardi,
era morto invece l'anno prima, nel 1836).
Così si intese col marchese Pietracatella (ex ministro
degli Interni) e il ministro di Polizia del Carretto. Ne ricevette
promessa di tolleranza, per quanto riguardava l'applicazione delle
rigide norme sanitarie e una carta, non ufficiale, per il trasporto
del cadavere.
Antonio Ranieri, dopo di questo, in quelle pochissime ore.....
dopo aver pensato a lungo, aveva scelto anche il luogo dove seppellire
il poeta: la chiesetta di San Vitale a Fuorigrotta, e per convincere
il parroco, don Francesco Sortino o Sorbino, vi si recò di
persona, elargì cospicue elemosine e regalò al sacerdote
una spasella di pesce fresco
(per don Antonio Ranieri non esistevano ostacoli: anche il prete
acconsentì subito, infischiandosene della legge, severissima
per i trasgressori. Combinarono anche l'ora: le due di notte, ore
22, dello stesso giorno 15 giugno).
Poi don Antonio dovette procurarsi la carta non ufficiale per il
trasporto del cadavere rilasciatagli dal ministro dal ministro di
polizia in persona, il feroce generale Francesco Saverio del Carretto,
proprio colui che lo aveva fatto arrestare cinque anni prima, appena
sceso dalla diligenza al suo rientro a Napoli, perchè sorvegliato
politico. Il Ranieri era tornato a Napoli per un indulto di Ferdinando
II, a patto che doveva risiedere in Napoli e non oltrepassare la
cinta daziaria. I fratelli Giuseppe e Luca sbrigarono altre innumerevoli
faccende. Andarono a denunciare il decesso, avvenuto per idropericardia,
alla sezione municipale Stella. Si recarono alla chiesa parrocchiale
dell'Annunziata a Fonseca per far registrare il nome nel libro dei
morti, avendo cura di far risultare, affermando il falso, che il
Leopardi aveva ricevuti i SS. sacramenti, e anche qui il prete si
mise a disposizione.
Nè l'ufficiale dello stato civile pensò di inviare
'o carrettone cu 'e schiattamuorte, nè il parroco
fece obiezione alcuna circa il fatto che il defunto NON aveva ricevuto
i Sacramenti, come risulta chiaramente dal certificato di padre
Felice da S.Agostino. Evidentemente, anche se non lo dicono, anche
qui dovettero " correre", come si dice a Napoli, altre
spaselle di pesce fresco.
C'è da immaginare inoltre l'affannosa corsa dei due fratelli
alla ricerca: di un intagliatore ebanista per procurarsi la cassa
da morto di noce massiccio, artisticamente scolpita; di una fonderia
per trovare una targa di bronzo adatta alla bisogna; poi di un incisore
per fare incidere il nome e cognome del poeta e le due date; e di
un orefice disposto a patinare la targa con uno spesso strato di
oro a 24 carati.
Occorrevano ancora carrozze, oltre quella di casa Ranieri, ed ecco
subito pronte quelle di casa Poerio e quella di casa Falanga coi
relativi cocchieri.
Manca ancora qualcosa: il rilevamento del volto del defunto, e a
questo ci pensa tosto don Antonio, ordinando allo scultore Tito
Angelini di volare a vico Pero per rilevare il calco. La sera del
15 don Antonio Ranieri, stanchissimo, andò a dormire. Ad
effettuare il "Raid". notturno, restarono i suoi fratelli,
e guarda un po'!, il dott. Stefano Mollica....
Per trovarsi all'appuntamento con il parroco di San Vitale a Fuorigrotta,
dovevano partire, al più tardi, intorno alle venti e trenta,
ora di Francia, vale a dire quelle segnate sul quadrante, e alle
venti e trenta, a metà giugno è quasi giorno ancora,
e quindi non può essere vero ciò che scrive l'Artieri,
e cioè che il solitario corteo passò per le vie
di Napoli deserte e buie.
Le strade non erano nè deserte, nè buie, erano invece
affollate ed illuminate mai come allora, per l'andirivieni di carretti
che trasportavano calce, disinfettanti e morti, nonchè di
gente intenta a bruciare indumenti e suppellettili appartenute a
colerosi, sia se questi venivano inviati ai lazzaretti, sia che
al cimitero. Insomma, tutte le strade erano costellate da centinaia
di falò, una versione triste dei famosi cippe a sant'Antuono,
e gremite di sorveglianti, di guardie e di monatti. Altro che deserte
e buie.....,
Don Antonio dunque racconta che Le tre carrozze partirono da S.
Teresa, e , pur viaggiando in senso inverso alla rotta da seguire
per raggiungere l'uno o l'altro dei due cimiteri, e pur recando
il morto a .... bordo, nessuno, diciamo nessuno, fermò il
funebre corteo per domandare:- Neh, ma vuie addo jate?! -specialmente
nei pressi del Museo, alla deviazione per Foria e per Poggioreale.
Secondo i culturati e i paracul....turati, non avvenne nulla di
tutto questo.
- Eh op,'a miezo! - e le "3 carrozze 3"
in una delle quali c'era la bara di traverso, attraversarono, inavvertite
e indisturbate, tutta Napoli, come se si stessero recando alla festa
di Piedigrotta. E infatti a Piedigrotta si presentò l'unico
intoppo della serata, a sentire i lettereati storici.
I doganieri di guardia alla cinta daziaria fermarono le carrozze
e vollero vedere se nella cassa non ci fossero, per caso, bottiglie
di "Gragnano", capecuolle di Giugliano, o prosciutti
di Caivano. Ma solo per questo.....
Quando videro che nella bara c'era veramente un cadavere, sempre
secondo gli studiosi della materia "leopardiana", quasi
quasi stavano per farli passare con le relative scuse e senza far
notare, agli improvvisati schiattamuorte, che i cimiteri
si trovavano alla parte opposta della città e perciò
dovevano invertire la rotta: Ma poi vedendo dei tagli sul cadavere
(e solo per questo), le guardie s' impressionarono e arrestarono
il terzetto e i cocchieri. - Ma vedete- escamò il medico
Mollica- voi non sapete chi siamo noi! Noi abbiamo il permesso di
tolleranza non ufficiale!
-Vuie 'a cca nun ve muvite, a gghiuorno se ne parla!- disse
il caporale dei dazieri, aggiungendo subito: -Addurmiteve dint'
'e carrozze.
Per i leopardisti niente di tutto questo. Loro seguono pedissequamente
tutte le fregnacce raccontate e scritte dai vari Ranieri e dal De
Gennaro Ferrigni e, come questi, vogliono ad ogni costo far credere
che veramente la salma del Leopardi fu salvata dalla fossa comune,
e che nella notte tra il 15 e 16 giugno avvenne il trasporto da
S. Teresa a Fuorigrotta.
Scrive Giovanni Artieri:
Il permesso in possesso dei due Ranieri venne ritenuto insufficiente
o apocrifo, per cui le guardie bloccarono tutto in attesa dell'
indomani.
Poi si decise di inviare in città Giuseppe Ranieri, appena
ventiquattrenne, allo scopo di recarsi direttamente dal ministro
di polizia, Francesco Saverio Del Carretto, per farsi rilasciare
un secondo permesso di tolleranza, ma questa volta in forma ufficiale,
magari su carta intestata con lo stemma di Stato e munito dei relativi
sigilli di ceralacca.
Il cocchiere Danzica, spronò i cavalli, e via....
Proprio in quei giorni, se non in quelle ore, il generale Del Carretto,
aveva un diavolo per capello. L'epidemia di colera aveva raggiunto
anche a Sicilia. Gli isolani morivno a migliaia (alla fine se ne
conteranno 65.256). E morivano trucidati innumerevoli funzionari
di Stato, accusati di aver propagato il terribile morbo per punire
i siciliani che si ribellavano al potere del re di Napoli. Ancora
pochi giorni e il generale Del Carretto sarebbe partito da Napoli
con le truppe alla volta dell'isola per domare la rivolta. Secondo
i leopardisti, il generale Del Carretto, oltre all'impossibile rilascio
del "permesso di tolleranza", sarebbe stato disposto anche
a rilasciarne un altro...." con un ordine più preciso",
in contrasto con la severissima legge in vigore, e ( cose da pazzi)
recante la propria firma, perchè...... era amico dei poeti.
Scrive ancora Giovanni Artieri, sempre sulla base delle fesserie
tramandate dai Ranieri e dal De Gennaro-Ferrigni, che:
verso le undici e mezzo (sic) avendo svegliato dal sonno
il del Carretto, Giuseppe Ranieri ritornò con le carte richieste.
Chissà quante carte!...
Solo per un senso di pudore, gli scrittori che si sono interessati
alla faccenda, non hanno mai descritto l'incontro con il relativo...
"ricevimento " avvenuto in piena notte, tra Giuseppe Ranieri
e il generale Del Carretto, e la levataccia di quest'ultimo per
scrivere di suo pugno un documento con il quale si contravveniva
ad una legge severissima. Proprio lui, il ministro di polizia, il
feroce e forcaiolo Del Carretto... Peccato che quella scena non
l'abbiano descritta, sarebbe stata veramente interessante e, nello
stesso tempo, anche... esilarante.
Il terzetto col morto (stavamo per scrivere il " tressette
") arrivò a Fuorigrotta nelle ore antelucane, quando
il prete, visto che l' ora dell' appuntamento era trascorsa da un
pezzo, se ne era andato a casa a dormire, dopo di aver cenato con
un' abbondante frittura di gamberi, di calamari e di triglie
d' 'o mare 'e Margellina, prese dalla spasella regalatagli
da don Antonio Ranieri e innaffiata col bianco vinello d' 'o
Monte 'e Proceta. E dato che il vino richiama alla mente l'
oste, diciamo pure che il povero prete si era fatto i conti, appunto,
senza l' oste, cioè senza l' onnipotenza di tutta la famiglia
Ranieri, per la quale non esistevano ostacoli di qualsiasi genere
fossero.
Non conoscevano se il prete si chiamasse Sortino o Sorbino, né
conoscevano l'ubicazione della casa dove egli abitava, eppure, dopo
di aver svegliato l' intera popolazione di Fuorigrotta e di Bagnoli,
riuscirono a rintracciare il prete e a strapparlo dalle braccia
di Morfeo, come avevano fatto con il generale Del Carretto, con
la sola differenza, che è quella per cui il prete, essendo
tale, non poteva neanche bestemmiare, e chissà se non lo
avrebbe fatto se in tutte le balle raccontate, o in almeno una,
ci fosse stata una sia pure minima traccia di verità. Noi
stiamo parlando di fatti mai accaduti, appunto perché impossibili.
Stando alle chiacchiere, il prete andò in chiesa, benedisse
la bara
dopo di averla aperta per costatare la presenza del corpo di
Leopardi (G. Artieri "Penultima Napoli", Milano 1963,
pag. 318).
La truffa non venne perpetrata quella notte, ma piuttosto nei giorni
successivi, quando la salma del poeta era già stata impacchettata
assieme ad altre nella calce viva in una fossa comune al cimitero
delle Fontanelle.
Con la complicità del prete corrotto e disonesto, e non per
una semplice spasella di pesce soltanto, fu facile a don
Antonio Ranieri sottrarre da qualche cripta delle ossa, metterle
in una cassa, che di noce massiccio non era, e tumulare il tutto
nella chiesetta di San Vitale.
La verità verrà a galla soltanto sessantatré
anni dopo, il 21 luglio del 1900, quando, finalmente, da una ricognizione
risultò che la cassa conteneva due femori, altre ossa frammiste
a terriccio e, non senza sorpresa si notò l'assenza del cranio,
la parte più nobile.
Orrore! Si gridò allo scandalo, alla profanazione della tomba,
alla sottrazione del prezioso cimelio.
Quella cassa non racchiuse MAI i resti di un corpo umano intero,
tantomeno quello di Leopardi.
Antonio Ranieri e i suoi parenti potettero inventare tutte le bubbole
da raccontare ai gonzi, ma non poterono mettere nella cassa, perché
impossibile a trovarlo, il corpo o un scheletro intero aventi le
stesse caratteristiche del corpo del Leopardi doppiamente gobbo;
né potevano introdurre nella cassa un teschio, facilmente
identificabile tramite il calco della maschera rilevata dallo scultore
Tito Angelini, dalla quale, poi, il pittore Domenico Morelli, ricostruì
le sembianze approssimative del poeta e che i culturati chiamano
" ritratto". Quale ritratto?!. Quando morì il poeta,
Domenico Morelli contava appena undici anni.
Dalla cassa non mancava soltanto il teschio. Per le ragioni suddette
mancavano ovviamente anche la colonna vertebrale e la cassa toracica,
altri elementi dai quali sarebbe risultato evidente che i resti
NON erano quelli di Giacomo Leopardi. E alle tante balle se ne aggiunse
un'altra: l' umidità della zona aveva disfatto le ossa che
mancavano.Se invece di una tomba falsa, il Ranieri, per onorare
la memoria dell' amico, avesse elevato un cenotafio vero, proprio
nel cimitero dei colerosi a Poggioreale o in quello delle Fontanelle,
come avvenne per tanti uomini illustri, non avrebbe tolto alcun
merito, né diminuita la grandezza del poeta, e non sarebbe
passato alla storia per il più grande bugiardo e truffatore
dell' Ottocento napoletano, e noi oggi, con l' approssimazione di
qualche metro, sapremmo almeno il luogo esatto in cui fu sepolto
Giacomo Leopardi, come sappiamo dove furono sepolti tanti uomini
illustri, quali il grande incisore medagliere Achille Arnaud, il
pittore olandese Antonio Sminck Van Pitloo e l' insigne musicista
napoletano Nicola Zingarelli e tanti altri che non hanno nulla da
vergognarsi per essere morti di colera. Proprio sul cenotafio di
Nicola Zingarelli, dove c' è anche l' effigie del grande
musicista, scolpita dallo stesso Tito Angelini che rilevò
la maschera del Leopardi, in una delle due iscrizioni lapidarie
sono incise delle parole che dovrebbero far riflettere i mitomani
e gli ammiratori del poeta. Eccole:
NICCOLÒ
ZINGARELLI
FU PER ARTE DI MUSICA E PER LETTERE CHIARISSIMO
LA SUA MORTE
FU DA' CITTADINI E DA' FORESTIERI COMPIANTA
CHE DEI CHIARI UOMINI
TUTTA LA TERRA E' PATRIA E SEPOLCRO
e chissà
se Basilio Puoti, autore dell'iscrizione, non volle attraverso queste
sue parole sferzare Antonio Ranieri per la truffa da lui perpetrata.
Oggi dicono che nel Parco Virgiliano c'è la TOMBA di Leopardi...
beato (per non dire fesso) chi ci crede.
*** *** ***
La Villa Ferrigni a Torre
del Greco
Giacomo Leopardi non soggiornò
a lungo in quella casa di campagna che oggi va sotto il nome di
"Villa delle Ginestre".
Il poeta vi dimorò a malincuore due volte: nella primavera
del 1836, e dalla fine di agosto dello stesso anno a tutto il febbraio
del 1837. E se il secondo periodo durò più a lungo
(sei mesi) fu solo perché a Napoli infuriava il colera di
cui il Leopardi aveva un terrore matto. Appena si seppe che l'epidemia
era finita (in realtà era solo latente) il poeta volle tornare
a Napoli. Dopo meno di due mesi di tregua, verso la fine di aprile,
con i primi tepori primaverili, il morbo riprese ad infierire con
maggiore veemenza, e non soltanto a Napoli. Ai primi di maggio,
a Torre del Greco, moriva il direttore del Conservatorio di S. Pietro
a Maiella, il gran musicista Nicola Zingarelli e per questo motivo,
chiacchiere di Antonio Ranieri a parte, il poeta spaventatissimo
non volle più tornare a Torre del Greco. Il colera c' era
anche a Torre. La progettata partenza per Torre del Greco fu tutta
una messa in scena del Ranieri per distogliere l'attenzione del
vicinato, e far capire loro che godevano ottima salute tutti i componenti
la famiglia compreso il poeta tanto che si era in procinto di partire
per la... villeggiatura.
Stanislao Ascione (La Mirabile terra vesuviana, pag. 60)
entusiasta per il soggiorno di sì grande poeta, scrive che...
egli soggiornò in questa villa dal 1833 fino alla metà
di febbraio dell'anno 1837, e lo... costringe a soggiornarvi
per ben quattro lunghi anni.
La villa, o meglio la casa rustica con il fondo circostante, che
Enrichetta Capecelatro giustamente chiama casa di campagna,
apparteneva un tempo al celebre canonico napoletano Giuseppe Simioli
(1713-1779) che tanta rinomanza ebbe nella seconda metà del
Settecento.Il suo nome figura in tutti i testi in cui si parla di
giansenismo e di cui abbiamo diffusamente parlato al capitolo dedicato
a Gaetano de Bottis. Infatti il Simioli fu maestro di Teologia del
grande cittadino torrese. Rettore del Seminario Urbano, dove studiò
il de Bottis, aveva anche la Cattedra di Teologia nella Regia Università
di Napoli, e il suo nome non era ignorato dai giansenisti dell'
intera Europa.
Il canonico torrese Francesco Saverio Loffredo lo paragonò
addirittura al grande Dottore della Chiesa san Tommaso d'Aquino;
sentiamolo:
Fu a que' dì, che credé
Napoli risorto l'Angelico Dottore, quando udì dalla cattedra
insegnar Teologia, in ancor bionda e fresca etade, Giuseppe Simioli;
e pronto allora fra' primi Gaetano de Bottis ed assiduo uditore,
alla presenza de' più distinti personaggi, con le frequenti
ingegnose dispute e pubbliche tesi fra' i più valorosi, sostenea
l' onor della scuola.
Per la morte del cardinale Antonino Sersale avvenuta il 24 giugno
1775, Giuseppe Simioli venne eletto Vicario Capitolare dell'Arcidiocesi,
e il 3 marzo 1776 prese possesso della stessa, con procura del nuovo
arcivescovo mons. Serafino Filingeri, in attesa che questi giungesse
da Palermo (cfr. Salvatore Loffredo I Vicari Generali della Chiesa
Napoletana dal sec. XIV ad oggi, Napoli, 1980).
Amico di Bernardo Tanucci, il Simioli ospitava spesso nella villa
il primo ministro di Ferdinando IV, e tra un sorso e l'altro di
" Lacrima Christi ", confabulavano certamente intorno
alla soluzione migliore per cacciare i Gesuiti dal Regno di Napoli,
mentre Gaetano de Bottis, benché interessato anch' egli alla
faccenda, perlustrava la lava del 1760 alla ricerca delle pietre
vesuviane per la sua grande collezione (circa la frequente presenza
del Tanucci nella villa, cfr. Enrica Viviani della Robbia Bernardo
Tanucci ed il suo più importante carteggio, Firenze 1942
vol. I, pag. 242).
Come si vede la storia della villa non incomincia col Ferrigni e
col Ranieri. Altri uomini illustri essa ospitò, tra i quali
il de Bottis che, per essere torrese, a noi interessa più
da vicino. Giuseppe Simioli morì il 22 gennaio 1779. Dopo
di lui, la villa, non sappiamo come, la troviamo di proprietà
di Giuseppe Ferrigni. E non sappiamo neppure come Giovanni Artieri
possa scrivere che la " proprietà era pervenuta dal
nonno materno, monsignor Simioli, dotto prelato, amico del
Tanucci, del Lambertini e del Ganganelli " (Clemente XIV, il
papa che soppresse l' Ordine dei Gesuiti). Povero mons. Simioli!
Anticurialista, giansenista, sì, va bene, ma che il "
dotto prelato", per essere nonno avesse avuto dei figli, questo
no. Perciò andiamo a fargli le dovute scuse in Santa Restituta
dove c'è il suo marmoreo busto.
Appena costituito il Regno d'Italia con la capitale a Torino (1861),
i patrioti raccolsero i frutti del loro... patriottismo, e tra questi
Giuseppe Ferrigni nominato vice presidente del Senato.
Nato a Napoli il 27 luglio 1797, il Ferrigni aveva sposato Enrichetta
Ranieri, sorella di Antonio, dalla quale ebbe quattro figlie di
queste, due soltanto interessano la storia della villa.
La primogenita, di nome Argìa, sposò Luigi De Gennaro
ed ebbe un figlio di nome Amerigo, nato a Napoli il 16 maggio 1856.
L' altra, Calliope, sposò Antonio Capecelatro ed ebbero una
figlia, Enrichetta, nata a Torino il 12 settembre 1863.
Alla morte del senatore Giuseppe Ferrigni, avvenuta a Torino il
29 dicembre 1864, la proprietà spettò alla primogenita
Argìa e da questa al figlio Amerigo. Eppure, non si crederebbe,
l' Artieri, non una volta sola, scrive che Amerigo... era il marito
di Argia Ferrigni, cioè della madre (cfr. G. Artieri Penultima
Napoli, 1963, pag. 303 e Napoli punto e basta, 1980, pag. 210).
Le puntualizzazioni non sono frecciate dirette all' illustre scrittore
napoletano qual è l' Artieri, e se le stiamo a fare è
solo per evitare che qualche "culturato" di turno possa
attribuire a noi gli errori degli altri.
Amerigo De Gennaro, come tutti i nobili, assunse anche il cognome
della madre e si chiamò Amerigo De Gennaro-Ferrigni e all'
età di 41 anni, nel 1897, dopo un'infinità di contrasti,
riuscì a sposare la contessina Adelaide Leopardi, figlia
di un pronipote del poeta.
Erano ancora in viaggio di nozze quando, a Firenze, la sposa fu
colpita da una persistente febbre. Amerigo la condusse subito a
Napoli ma, purtroppo, tutte le cure risultarono inutili: la febbre
non era altro che tifo, per cui la sposa tanto amata e agognata,
gli fu strappata dalla morte dopo solo quattro mesi di matrimonìo.
Per lo strazio provato Amerigo fu sul punto di perdere la ragione
e nei momenti di supremo sconforto pensava di andare a rinchiudersi
nel monastero di Montecassino. Poi, l' affetto dei suoi familiari
riuscì a poco a poco a riattaccarlo alla vita, ma la tristezza
non si cancellò mai dal suo viso, una volta gioviale e sorridente.
Scelse la politica per antidoto, e secondo Fausto Nicolini (Anedocta
Archivio storico del Banco di Napoli, 1957) il De Gennaro-Ferrigni
riuscì nel 1902, dopo viva lotta, a conquistare un seggio
nel Parlamento nazionale che conservò decorosissimamente
sino alla morte.
Di quanto scrive il Nicolini è esatto soltanto la "viva
lotta " che dovette sostenere, ma non la data della conquista
del seggio al Parlamento.
Nelle elezioni politiche per la XX Legislatura, svoltesi nel marzo
del 1897, il Ferrigni oppose la sua candidatura a quella dell' on.
Giovanni Della Rocca (il fondatore della Scuola del Corallo a Torre
del Greco) deputato uscente nel IX Collegio elettorale di Napoli,
del quale collegio faceva parte il Comune di Torre del Greco, e
il Ferrigni non fu eletto. Venne rieletto il Della Rocca, come era
sempre avvenuto fin dal 1870. Alle elezioni successive, svoltesi
nella primavera del 1900, per la XXI Legislatura fu ancora rieletto
Giovanni Della Rocca. Le " vive lotte " sostenute dal
De Gennaro-Ferrigni finirono soltanto con la morte del Della Rocca
avvenuta il 26 febbraio 1903, e così nelle elezioni per la
XXII Legislatura svoltesi nell'autunno del 1904, il Ferrigni conquistò'
il suo seggio in Parlamento. Nel 1902 non vi furono elezioni. Cio'
è importante per ulteriori ricerche.
Un triste destino pesava su quest'insigne studioso e uomo politico.Dopo
la perdita della moglie tanto amata, il Ferrigni si spense in pochi
giorni nell'aprile del 1907, all'età di 51 anni.
Con un testamento che gli fa grandemente onore - scrive Fausto
Nicolini lasciò allo Stato la sua biblioteca personale
formata da 15 mila volumi a condizione che venisse allogata nella
biblioteca dei Gerolamini.
La collezione leopardiana, cioè i ricordi e gli scritti riguardanti
il poeta, e la villa egli la legò ad Antonio Carafa conte
di Ruvo (poi duca d' Andria) figlio della sua prediletta cugina
Enrichetta Capecelatro, a sua volta figlia di Calliope Ferrigni.
L'intenzione del testatore era quella di convertire in un museo
sacro alla memoria del poeta la villetta sita alle falde del Vesuvio.
Ed ecco che scrive a proposito Fausto Nicolini.
In quel luogo, per l'appunto, il De Gennaro-Ferrigni bramava
raccogliere, oltre gli oggetti personali del poeta e il ritratto
dipinto da Domenico Morelli......
(Il quadro del Morelli non è un ritratto dal vivo, perchè
quando morì Leopardi, il pittore contava undici appena; ma
è una riproduzione tratta dalla maschera di Tito Angelini
e /o da qualche altro ritratto del poeta, anteriore alla sua morte
e che il Morelli dipinse certamente parecchi anni dopo la scomparsa
del Leopardi. Infatti il pittore alla sua firma sul quadro, non
fece seguire la data dell'esecuzione del dipinto, con il risultato
che, oggi, un ritratto ricavato da un altro ritratto è ritenuto
un... "ritratto"). Scusate la lunga parentesi, e seguiamo
il Nicolini. Il De Gennaro-Ferrigni intendeva allogare nella villa,
come si è detto, una consistente collezione, frutto di venti
anni di ricerche, composta da volumi, opuscoli rari e altro, il
tutto inerente alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, in
quantità tale da riempire due grossi scaffali.
Se i Carafa d'Andria avessero ottemperato ai loro doveri, che erano
quelli di rispettare la volontà dell' estinto, o meglio del
testatore, oggi, Villa delle Ginestre poteva essere veramente un
centro di studi leopardiani.
La preziosa raccolta non fu mai allogata nella villa e i Carafa,
nelle interviste concesse a scrittori e giornalisti, non hanno mai
parlato di tutto questo, intenti, come sempre, a fare la storia
della loro famiglia piuttosto che quella della villa. Sulle condizioni
con le quali era loro pervenuta e allo scopo cui essa doveva essere
destinata, silenzio assoluto. Oltre a ciò, silenzio anche
sul povero Amerigo De Gennaro-Ferrigni. Ed ecco le notizie che la
contessa Vittoria de Gavardo, sorella di Antonio Carafa a cui il
De Gennaro-Ferrigni lasciò la villa, fornì a Giovanni
Artieri:
Mia madre, Enrichetta Capece Latro, nata a Torino il 12 settembre
1863 e morta a Napoli il 4 marzo 1941, era figlia di Antonio Capece
Latro e di Calliope Ferrigni, la cui madre, Enrichetta era sorella
di Antonio Ranieri. La villetta dove dimorò Giacomo Leopardi
capitò in divisione ad una sorella della mia nonna materna,
Argìa Ferrigni in de Gennaro (attenti al de minuscolo, indice
di nobiltà). Rimasta vedova sposò Enrico Lang. Uno
dei due figli del primo letto lasciò in eredità la
villetta a mio fratello, allora conte di Ruvo, (essendo vivo mio
padre) poi duca d'Andria. La villetta fu acquistata da mio marito
e da me nel 1924. Mio marito, il conte Alessandro de Gavardo (con
la d minuscola) figlio di Alessandro e di Maria Stuparich, nacque
a Trieste il 19 marzo 1891 ed è morto a Villa delle Ginestre
il 25 giugno 1960.
Come si vede, la contessa così
prolissa e precisa nel citare nomi e date riguardanti i suoi antenati
e parenti e così meticolosa nel precisare che la d
va scritta con lettera minuscola, non si degna neppure di citare
il nome più importante, quello di Amerigo De Gennaro-Ferrigni,
sia pure con la D maiuscola, ma dice semplicemente: uno dei due
figli del primo letto di Argia Ferrigni, aggiungendo la... strabiliante
e interessantissima " notizia storica ", con la quale
ci fa sapere che rimasta vedova sposo' Enrico Lang. Del MUSEO
SACRO ALLA MEMORIA DEL POETA, com' era nelle intenzioni di Amerigo
De Gennaro-Ferrigni, nemmeno un' accenno.
Nel giugno del 1937, ricorrendo il centenario
della morte del poeta, a cura del Municipio di Torre del Greco,
sulla casa che lo aveva ospitato per pochi mesi, venne murata una
lapide con la seguente iscrizione:
QUI SULL'ARIDA SCHIENA
DEL FORMIDABIL MONTE
STERMINATOR VESEVO
GIACOMO LEOPARDI
SCRISSE
LA GINESTRA
IL TRAMONTO DELLA LUNA
IL COMUNE DI TORRE DEL GRECO
NEL PRIMO CENTENARIO DELLA MORTE
DEL GRANDE RECANATESE
AI POSTERI TRAMANDA
La lapide con l' orribile iscrizione
fa brutta mostra di sé, sotto l' inter-columnio fatto costruire
nel 1908 da Riccardo Carafa d' Andria, e AI POSTERI TRAMANDA ben
poca cosa.
Nel 1962 la villa fu acquistata dallo
Stato che, oltre a dover salvare la casa dallo stato d'abbandono
in cui si trovava, e ancora si trova, per suggerimento dei vari
culturati paesani, doveva essere adibita a chissà quale centro
di studi leopardiani. Benissimo. Ma questo si sarebbe potuto realizzare
solo se nella villa fosse stata allogata l'intera COLLEZIONE LEOPARDIANA,
com' era nelle intenzioni dell' on. Amerigo De Gennaro-Ferrigni,
ma purtroppo questo non è avvenuto.
Nella villa restano, se ancora esistono, poche cianfrusaglie che
non sono per niente oggetto di studio, e tra queste, anche il falso
certificato medico redatto il 15 giugno 1837 dal prof. Stefano Mollica,
ma che artatamente reca la data del giorno prima, 14 giugno.
* * *
I tre asterischi stanno ad indicare
che questo pezzo è stato da noi aggiunto dopo la stesura
del capitolo. Il codicillo si è reso necessario per aggiornarci
e per dimostrare, ancora una volta, quanto risponde al vero cio'
che abbiamo detto, e cioè che i Carafa d' Andria non rispettarono
le ultime volontà di Amerigo De Gennaro Ferrigni, unico proprietario,
sia della villa, e sia di tutto il carteggio riguardante il Leopardi,
la cui consistenza (lo abbiamo già detto) era tale da RIEMPIRE
DUE GROSSI SCAFFALI. A Napoli si usa dire: cca nisciuno è
fesso.
Infatti il 31 ottobre 1981, a tre quarti di secolo dalla morte del
De Gennaro Ferrigni e dalle sue ultime volontà, i Carafa
d' Andria hanno messo all'asta in quel di Bari, le 38 lettere che
Giacomo Leopardi, da Firenze, scrisse ad Antonio Ranieri a Napoli.
Le lettere dovrebbero essere 39, perché in data 2 aprile
1833 Leopardi ne scrisse due. In totale, la prima è datata
24 novembre 1832, l'ultima 13 aprile 1833, e a leggerle c'è
da venire il volta-stomaci. Ci ripugna dirvi il perché.
In più, è stata messa all'asta la tela del Morelli
che va sotto il nome di " ritratto ".
Prezzo pagato per l'aggiudicazione: 52 milioni per le lettere; 15
milioni per il " ritratto". Tutto materiale che il Ferrigni,
per TESTAMENTO, aveva destinato alla villa di Torre del Greco, perché
IN ESSA vi fosse allogata L'INTERA COLLEZIONE LEOPARDIANA, cosa
questa che il legatario, Antonio Carafa conte di Ruvo, si guardò
bene dal mettere in pratica.
La gara per l'aggiudicazione dei cimeli (una farsa messa in iscena
per far salire il prezzo) si è svolta tra un rappresentante
del comune di Recanati e un pediatra, certo dott. Massimo Ramadori
di Montegiorgio in provincia di Ascoli Piceno.
L'avrebbe spuntata il pediatra se non fosse intervenuto lo Stato
avvalendosi del diritto di prelazione.
Le lettere sono state destinate alla Biblioteca Nazionale di Napoli
(il ministro addetto è deputato eletto in questa circoscrizione),
mentre il " ritratto " per ora è restato al pediatra.
Povero Ferrigni!... Egli VOLEVA che nella villa di Torre del Greco
e che portava il suo nome (Villa Ferrigni- come si legge sulle vecchie
carte topografiche) venisse istituito un MUSEO SACRO ALLA MEMORIA
DEL POETA. Dopo la sua morte, invece, la Villa Ferrigni divenne
"Villa delle Ginestre" e il suo nome venne cancellato
per sempre, assieme alle sue disposizioni testamentarie. Nella villa
i Carafa misero soltanto quattro cianfrusaglie, e in ultimo, con
le vendite effettuate, s' è visto che les affaires sont
les affaires.
Tutto questo con buona pace anche dei sedicenti culturati di Torre
del Greco che, con quelle quattro "patacche", avrebbero
voluto istituire nella villa, un... "Centro di Studi Leopardiani
".
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