La
storia della pesca del corallo, senza risalire ad epoche remote
o remotissime, altri lo hanno già fatto, può dividersi
in quattro periodi.
Il primo è quello dei Pisani che nell'XI secolo si distinsero
nella lotta contro i saraceni e che, nel 1087, vittoriosi in una
spedizione contro Tunisi, fondarono sulle coste africane banche
e vi stabilirono negozi d'ogni genere. L'insidiamento non fu breve,
poichè nel 1167 il bey di Tunisi, Abdallah-Bockoras, cedeva
loro in piena proprietà l'isola di Tabarka presso il confine
algerino con l'esclusivo privilegio della pesca del corallo che
tennero fino al 1550.
Verso il 1439, in quasi tutto il Mediterraneo occidentale la pesca
del corallo passò ai Catalani per l'avvento di Alfonso I
d'Aragona sulle isole di Sardegna e di Sicilia prima e sul Regno
di Napoli poi.
In questo secondo periodo il corallo si pescava in abbondanza anche
nel Golfo di Napoli. Tanto è vero che la gabella sul pescato
(quella gabella che in seguito i torresi non vollero mai pagare
ai Carafa) dava, per il sol "banco" di Massalubrense,
dai duemila ai tremila ducati annui. Per dare una idea dell'entità
della cifra, basta pensare che a quei tempi quattro ducati bastavano
per acquistare un bue.
Addetto alla riscossione era un certo Pietro Saldando al quale Alfonso
I dette la concessione perchè si era distinto nella difesa
di Castelnuovo.
Il terzo cioè il periodo genovese, ha inizio nel 1535 con
la conquista di Tunisi da parte dell'imperatore Carlo V. In quella
spedizione ebbe una parte di primissimo piano l'ammiraglio genovese
Andrea Doria e fu lo stesso ammiraglio che nel 1550, nelle acque
della Corsica, catturava il famoso corsaro algerino Dragut o Dorghut,
e il riscatto quella volta dovette pagare...il barbaresco. Lo dovette
pagare al comandante della galera che lo aveva catturato e che apparteneva
ad una potente famiglia genovese quella dei Lomellini, che fin dal
1494 si era dedicata alla pesca del corallo con a capo Niccolò
Lomellini.
Il prezzo del riscatto fu la cessione ai Lomellini del "banco
dell'isola di Tabarka che una volta era stata dei pisani, mentre
il "banco" di Bona fu preso in affitto dall'ammiraglio
Andrea Doria.
Giovanni Tescione afferma invece che il Dragut fu catturato nel
1540 ( Italiani alla pesca del corallo, ed. Fiorentino, Napoli,
1968, pag. 195). Il periodo genovese non durò a lungo.
Nel 1561, Tommaso Luchez e Carlo Didier, due marsigliesi, fondarono
a Bona la prima stazione "corallina"francese, denominata
appunto "Bastione di Francia"ma che, nel 1598, fu demolita
dagli algerini, per risorgere poi nel 1604, quando venne rinnovata
la concessione agli stessi Luchez e Didier.
Successivamente il sultano turco Amurat IV, nel 1624, cedeva in
piena proprietà al cardinale Richelieu, il "Bastione
di Francia", la Cala, il Capo Rosa, Bona e il Capo Negro. Come
si vede il corallo oltre all'ammiraglio Doria, interessò
anche il famoso personaggio del non meno famoso romanzo del Dumas,
"I Tre Moschettieri". Da qui ebbe inizio il quarto periodo,
quello francese.
La penetrazione francese in Africa, condotta con costante tenacia
per più di un secolo, culminò nel 1741 con la costituzione
a Marsiglia della "Compagnia d'Africa" (Compagnie Royale
d'Afrique) avente per capitale l'enorme cifra di due milioni di
franchi, e con la eliminazione dei Lomellin che avevano resistito
per circa due secoli.
I pescatori torresi, oltre a difendersi dai corsari
turchi e barbareschi, trovarono un altro nemico nella "Compagnia
d'Africa", che respingeva tutti i pescatori stranieri, affermando
essere suo il monopolio della pesca del corallo.
Durante la Rivoluzione francese, in nome di quella libertà
a cui la rivoluzione s'ispirava, i contrasti si affievolirono, ma
con i sultani turchi e coi veri "bey"di Tunisi e di Algeri,
rendendo questi ultimi più agguerriti e tracotanti.Fu quello
un periodo nero per i pescatori di Torre del Greco.
(...)Gli interessi commerciali della "Compagnie Royale d'Afrique"
prevalsero sugli ideali politici di "Liberté- Egalité-
Fraternité".
Abbiamo già accennato alla tracontanza dei barbareschi, però
è bene citare un esempio che vale a dimostrare il grado di
fanatismo raggiunto.
Nel 1813, al rifiuto americano di pagare un non specificato balzello
o tributo, il bey d'Algeri Alì aveva espulso il console e
dichiarato guerra agli Stati Uniti.
Il 17 giugno 1815, una squadra navale americana di otto navi al
comando del commodoro Decatur giunse nel Mediterraneo e prese a
cannonate i barbareschi per terra e per mare. Nel combattimento
navale che ne seguì trovò la morte il leggendario
rais algerino Hamida.
Allo scopo di liberare i cristiani fatti schiavi dai turchi che
infestavano il Mediterraneo, fin dai tempi antichi, ad iniziativa
di vari ordini religiosi e anche di laici, sorsero molte opere pie
che provvedevano al pagamento del riscatto dei poveri malcapitati.
Ancora oggi a Torre del Greco per indicare un grosso pericolo scampato,
si usa dire: «Me vediétte pigliato r' 'i turche»,
anche se il paragone non regge di fronte alle indicibili sofferenze
di quei poveri caduti in schiavitù di uomini crudeli.
Nel 1198 da S.Giovanni di Matha e da S. Felice di Valois venne fondato
l'Ordine dei Trinitari, approvato da Innocenzo III ,che, in un tempo
relativamente breve, giunse ad avere intorno alle 800 case in tutta
la cristianità.
Nel 1218 S.Pietro Nolasco e S. Raimondo di Pennafort fondarono l'Ordine
di S.Maria della Redenzione degli schiavi detto anche Ordine della
Mercede. San Pietro Nolasco passò poi il generalato dell'Ordine
a S.Raimondo Nonnato che sofferse la schiavitù in Algeri
quando volle offrirsi in ostaggio per la liberazione di altri.
Nel 1264 sorse a Roma l'Arciconfratenita del Gonfalcone.
Nel 1549, al tempo del vicerè Pietro di Toledo, sorse a Napoli
la Compagnia di S.Maria della Redenzione dei Captivi, riconosciuta
da papa Giulio IIIe dallo stesso vicerà de Toledo.
La Compagnia, fondata nella chiesa di S.Domenico Maggiore, in seguito
fu allogata nella chiesa che ancora oggi si vede sulla sommità
della Salita S.Sebastiano, alle spalle di Port'Alba, chiesa costruita
su suolo donato dai Padri Celestini. Questa Congregazione laica
giunse a disporre di una rendita annua di 8.000 ducati da servire
per il riscatto dei miserabili cattivi che in quel tempo erano in
gran numero - come il Celano scrisse nel 1692.
In questa chiesa, nel 1723, in un giorno in cui si celebravano le
Quarant'ore, entrò un giovane gentiluomo già celebre
avvocato. Egli si prostrò davanti al quadro di S.Maria del
Rimedio. Dopo essersi raccolto a lungo in calda preghiera si alzò
e, nel depositare la sua spada a quell'altare, fe' voto di consacrarsi
al Sacerdozio. Quel giovane avvocato di nobile famiglia, si chiamava
Alfonso Maria de' Liguori. Il suo modello di santa vita ispirerà
in seguito il sacerdote torrese Vincenzo Romano.
Non per curiosità abbiamo citato l'episodio, ma perchè
S.Alfonso e i suoi PP. Redentoristi, si prodigarono più degli
altri alla liberazione degli schiavi e specialmente nella divulgazione
della Bolla della Crociata della quale parleremo in seguito.
Nel 1639, a Torre del Greco, 58 padroni di barche coralline, con
fondi costituiti dai contributi sul prodotto della pesca, fondarono
una istituzione mutualistica che chiamarono Monte dei Marinai e
che provvedeva all'assistenza per malattia e vecchiaia, elargiva
danaro per maritaggi, per spese funebri e soprattutto per i marinai
torresi tratti in schiavitù dai corsri barbareschi. Un'analoga
associazione venne fondata a Capri nel 1678 con le stesse finalità.
L'atto costitutivo del Monte dei Marinai di Torre del Greco, in
caso di cattura di pescatori torresi da parte degli infedeli, stabiliva
il contributo del «Monte» nella somma di 50 ducati.
Nel 1724, tale importo venne elevato a 75 ducati.
Occorre precisare anche che l'istituzione, pur avendo sede nella
Chiesa di S.Maria di Costantinopoli, non era un'associazione religiosa,
ma un'associazione a carattere mutuo-corporativa amministrata dai
laici.
Altra leggenda da sfatare è quella per cui la statua della
Madonna che ancora, fortunatamente, si vede in detta chiesa, fu
portata a Torre del Greco da un corsaro di nome Maldacea, Matacena
o Maldacea e nominata S.Maria di Costantinopoli. A Trapani esiste
un'altra effige della Madonna e anche lì è nominata
S.Maria di Costantinopoli, ed è la stessa protettrice della
città. Nella processione i marinai trapanesi hanno l'esclusivo
privilegio di portare a spalla la statua, perchè
Li ubbidiscinu suli i navicanti.
Purtari nun si fa da autri genti.
Torre del greco e Trapani hanno moltissime usanze
in comune, derivanti tutte dalla pesca e dalla lavorazione del corallo.
Fino a quando non ancora erano «passate di moda» le
immagini sacre, non c'era casa di marinaio o di corallaro a Torre,
specialmente nel quartiere della marina, in cui, sul canterano (quel
mobile le nostre madri chiamavano « 'A Cefuniéra»,
dal francese ceffoniere) non si notava, infiorato e illuminato,
il quadro della Madonna di Trapani. E dato che i quadri erano piuttosto
grandi, sotto il vetro, l'immagine della Vergine era adornata con
orecchini e collane di corallo di proporzioni adatte alla figura.
Il «monte dei Marinai» er una specie di cassa mutua
e, proprio come avviene oggi, forniva agli assistiti anche i medicinali.
Per un certo tempo a fornirli furono i De Bottis, parenti del grande
Gaetano. Ai liberati della schiavitù, il «Monte»
offriva cinque ducati perchè potessero farsi un vestito.
Qualora il denaro a disposizione del «Monte» non era
sufficiente, interveniva una più grossa istituzione che era
la Real Casa Santa per la Redenzione dei Captivi con sede in Napoli,
a cui abbiamo già accennato.
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Non si può
parlare di pirateria sul mare e di quella barberesca in particolare
senza conoscere almeno per sommi capi il più importante documento
storico a riguardo la Bolla della Crociata, pubblicata nel Regno
di Napoli nella Domenica di Settuagesima (15 febbraio) del 1778.
Su richiesta di re Ferdinando IV di Borbone, papa Pio IV, con «breve»
in data 21 novembre 1777, estese al Regno di Napoli la «Bolla
della Crociata» che già esisteva in altri paesi quali
Spagna, Portogallo, Sardegna, Genova, Malta, Sicilia e perfino in
alcuni paesi dell'America Latina.
La «Bolla» andò in vigore il 4 marzo, primo giorno
di Quaresima, del 1778, e il suo scopo principale era quello di
procacciare fondi per la costruzione di nuove navi onde potenziare
la marina napoletana e meglio combattere contro i corsari barbareschi
che infestavano il Mediterraneo; inoltre fu creata per riscattare
gli infelici marinai fatti prigionieri e relegati in terra d'Africa
tra indicibili sofferenze.
Spesso all'arcivescovo di Napoli, Serafino Filangieri, in qualità
di Commissario Generale della Crociata nel Regno di Napoli al di
qua dal Faro, diffonderla in tutte le diocesi del Regno.
In sostanza la «Bolla» concedeva ai fedeli la dispensa
dal digiuno nel periodo della Quaresima, eccettuata la Settimana
Maggiore, cioè la Settimana Santa. mediante un obolo che
variava a seconda delle classi sociali. C'era l'obolo per i nobili
(grana 50 = mezzo ducato); quello per i mezzani (grana 24) ed infine
quello per i meno abbienti (grana 13).
Come si vede si tratta di centesimi di ducato, e benchè fossero
dei centesimi, c'erano anche coloro che pagavano...a rate, purchè
avessero pagato a saldo entro la festività di Pasqua, e questo
per motivi di contabilità.
Col passare degli anni, detti oboli subirono dei lievi aumenti e
se si pensa che a quei tempi la carne era un lusso che pochi potevano
permettersi, e che in fondo si trattava di centesimi, il risultato
fu enormemente positivo, anche se Pietro Giannone considerò
la «Bolla» un'illecita mescolanza tra sacro e profano
e un astuto pretesto per fare quattrini.Ma guardiamo piuttosto il
risultato.
Nei primi nove anni, dal 1778 al 1786, si ricavarono 498.953 ducati,
che certamente non andarono a finire nelle tasche dei ladri come
spesso avviene oggi. Ed ecco il perchè:
Nel 1783 furono fondati i gloriosi Cantieri Navali di Castellammare
di Stabia.
I primi vari si ebbero nel 1786, quando scesero in mare ben tre
navi:
il 10 gennaio, la corvetta «Stabia» armata con 24 cannoni;
il 16 agosto, il vascello «Partenope» armato con 74
cannoni; e, il 15 ottobre, la corvetta «Flora» armata
con 24 cannoni.
Nel 1787, il 15 ottobre, fu varata la corvetta «Galatea»
(20 cannoni).
Nel 1788, il 31 gennaio, scese in mare la fregata «Sibilla»
(40 cannoni); il vascello «Ruggiero» con 74 cannoni
(manca la data del giorno); il 15 aprile la corvetta «Aurora»
(24 cannoni); e il 15 ottobre, la corvetta «Fortuna»
(24 cannoni).
Nel 1789, il 3 luglio, la fregata ,«Sirena» (40 cannoni);
il 10 agosto , la fregata «Aretusa» (40 cannoni); il
3 settembre, il vascello «Tancredi» (74 cannoni); e
il 15 settembre , la corvetta «Fama» (24 cannoni).
Nel 1791, il 13 maggio, il vascello «Guiscardo» (74
cannoni).
Nel 1792, il 12 settembre, il vascello «Sannita» (74
cannoni).
Nel 1795, l'11 settembre, il vascello «Archimede» con
74 cannoni.
Nello stesso arco di tempo, a Napoli, a Palermo, a Messinae a Trapani,
vennero costruite numerose navi di stazza minore quali: sciabecchi,
gabarre, pacchetti (usati per trasporto passeggeri e posta), brigantini,
polacche, scuner, galeotte, paranzelli, lance-bombardiere e leuti.Questi
ultimi erano dei natanti da pesca, armati di un cannoncino.
Prima della «Bolla», qualche nave già costruita
veniva acquistata all'estero, come la fregata «S.Dorotea»
comprata nel 1774 a Cartagena in Ispagna, e sulla quale imbarcò
a diverse riprese...il tenente di vascello Francesco Caracciolo.
Altre navi acquistate all'estero furono: la fregata «Pantera»
(Marsiglia 1787), e i vascelli «S.Giovanni» e «S.Gioacchino»
(Malta 1780).
Le navi della flotta napoletana non avevano nulla da invidiare a
quelle delle altre nazioni, compresa l'Inghilterra, specialmente
le navi costruite nei cantieri di Castellammare. L'episodio che
segue è noto a tutti, ma è bene ricordarlo.
Ferdinando IV, il 21 dicembre 1798, all'avvicinarsi dei francesi,
scappò da Napoli e il 22 veleggiò alla volta di Palermo,
non prima di aver assistito all'incendio nel quale furono distrutte
quasi tutte le navi della flotta napoletana, tra cui tre dei superbi
vascelli costruiti a Castellammare, e cioè, il «Partenope»,
il «Tancredi»e il «Guiscardo».
E' noto altresì che la famiglia reale al completo preferì
imbarcarsi sulla nave inglese «Vangaurd» comandata da
Nelson, anzichè sul vascello napoletano «Sannita»
del quale era comandante Francesco Caracciolo.
Navigarono in un mare oltremodo burrascoso e quando, il 25 dicembre,
arrivarono a Palermo il «Vanguard» era pressoché
un relitto che, perdurando la tempesta, l'ammiraglio Nelson non
riusciva a condurre in porto. Dovette salire a bordo il comandante
napoletano Giovanni Bausan che si trovava a Palermo con la corvetta
«Aurora», per guidare la nave nel porto. Nello stesso
tempo il «Sannita», al comando dell'ammiraglio Francesco
Caracciolo, entrava nel porto a vele spiegate e con una splendida
manovra andò ad attraccare dolcemente alla banchina. Nelson
non dimenticò questa doppia umiliazione. Se ne ricordò
il 29 giugno del 1799 quando permise l'impiccagione del Caracciolo
all'albero maestro della fregata napoletana «Minerva».
Questo marchio d'infamia offusca la grandezza del più eroico
ammiraglio inglese.
La digressione, se non altro, è servita a dimostrare che
una volta, sia pure coi centesimi, si realizzava bene ciò
che oggi non si fa con i miliardi, e quando lo si fa, si opera male.
La Bolla della Crociata, dicevamo, serviva anche
a procacciare fondi per la liberazione dei marinai catturati dai
corsari barbareschi.
Scrive Aldo Caserta (La Bolla della Crociata nel Regno di Napoli,
Athena, Napoli, 1971, pag. 25):
Nel 1787, ad esempio, furono riscattati 206 cristiani schiavi, col
pagamento di 351.000 ducati. Il danaro fu anticipato dal Re, per
poi averne rimborso dai Monti della Redenzione: Per questo affare
partì il brigadiere (Giovanni) Tomas, con le fregate S.Dorotea
e S.Gioacchino, portando il danaro in contanti.
Il compito di divulgare la Bolla della Crociata venne affidata dal
re proprio ad Alfonso de'Liguori e ai suoi Missionari Redentoristi,
e il successo fu enorme, tanto che il sovrano, per riconoscenza,
concesse alla congregazione parecchi privilegi. E qui torna alla
mente quel lontano giorno del 1723 in cui un giovane avvocato depone
la spada ai piedi dell'altare, proprio nella chiesa della Redenzione
dei captivi.
Scrive Carlo Bruno ( Dal Mare, Casella, Napoli 1911, pag. 30):
Da tempi remoti i marinai di Torre del Greco partivano per la pesca
nei mari di Corsica e Sardegna, spinti al mare da un indomito spirito
di avventure, dagli scarsi frutti che davano le campagne spesso
devastate dal Vesuvio, e dai pesi del regime feudale.
Il Bruno, che quando scriveva era direttore generale della Marina
Mercantile,non precisa quali erano i «tempi remoti»,
mostra d'ignorare che a spingere i torresi al mare non fu il Vesuvio
che taceva dal 1139 e né furono i «pesi del regime
feudale» che gli stessi torresi non vollero mai pagare e che
mai pagarono. Semmai, oltre all'indomito spirito di avventura, erano
spinti anche dalla loro avidità di guadagno.
I torresi, come i genovesi, sono stati sempre attaccati al denaro.
Per quanto riguarda il Vesuvio, questo entrò in iscena soltanto
nel 1631.
La seconda metà del Settecento fu il periodo in cui la pesca
del corallo ebbe il suo maggiore sviluppo.
La pesca si esercitava allora, oltre che nei mari di Algeria e Tunisia,
nelle acque della Sicilia e della Calabria; nello stesso golfo di
Napoli; nelle acque della Sardegna e della Corsica; in quelle della
costa catalana e in quella di Provenza; intorno alle Baleari e lungo
le coste della Toscana e, più lontano, nel vasto arcipelago
dell'Egeo e lungo la costa dalmata (Schiavonia), come si deduce
anche da un antico canto popolare, certamente torrese, a cui accenneremo
in ultimo.
La pesca veniva esercitata anche da marinai di ogni singola regione
citata.
Qua e là era in mano a pescatori anche per locali, insieme
ai quali però le sporadiche barche coralline di varia bandiera,
erano sparuta minoranza rispetto alle audaci flottiglie di feluche
napoletane,PRINCIPALMENTE TORRESI (Michele Vocino- Primati del Regno
di Napoli, ivi, Pironti,s.d.).
Nel 1780, i torresi, attratti dalle notizie circa
i vasti e ricchi «banchi» di corallo esistenti nei mari
africani, vi si recarono in gran numero e approdarono in un isola
disabitata chiamata Galita (Galite).
Nel gergo marinaro armare significa attrezzare, allestire la barca
o la nave, ma quella volta i torresi oltre ad armare le barche si
armarono loro stessi per combattere contro i corsari barbareschi,
più che mai decisi a non farsi prendere, per non dire poi
:
«me vediétte pigliato r' 'i turche».
A 24 miglia dall'isolotto di Galita i torresi trovaqrono un banco
ricco di ottimo corallo e molto agibile per la pesca, perchè
poco al disotto della superficie del mare, tanto che lo denominarono
«Summo», e non perchè fu scoperto da un marinaio
di nome Summo o Scummo. Infatti i torresi per indicare qualcosa
che si trova a fior d'acqua usano dire che sta «cchiù
summo». Invece, per la profondità dicono sta «cchiù
'nfunno».
Oltre al «Summo», nel 1783, i torresi trovarono un altro
banco che in quell'anno fruttò loro un'abbondante pesca.
La Galita venne trasformata in una specie di base logistica dove
con la costruzione di adeguati ricoveri i pescatori torresi riponevano
le provviste di bordo, attrezzi per la pesca e tutto quanto poteva
servire loro, non esclusa una piccola infermeria.
In questi anni si dètte inizio all'assistenza spirituale
dei marinai. Ad ogni «campagna» partiva da Torre del
Greco un sacerdote che, durante tutto il tempo della pesca, sostava
sulla Galita a celebrare i riti religiosi e a mantenere i contatti
tra i pescatori e le loro famiglie a Torre.
Non sappiamo chi fu il primo Cappellano delle barche, ma sappiamo
che nel 1815 era don Gerardo Palomba e che questi affrontò
non pochi pericoli nel prodigarsi per la liberazione dei torresi
caduti nelle mani dei corsari barbareschi.
Il preposito curato di Torre delGreco, don Vincenzo Romano, aveva
molto a cuore questa missione atta ad assistere spiritualmente e
materialmente i suoi filiani lontani ed esposti a mille pericoli.
Scrive mons. Salvatore Garofalo (Un Parroco sugli Altari - Ancora,
Milano, 1963):
Il Preposito al tempo della partenza, forniva con larghezza il Cappellano
delle barche di immagini sacre, scapolari mariani, medaglie, crocifissi
e corone, perchè il suo ricordo, le istanze e il conforto
della fede e della pietà cristiana fossero sempre ad essi
presenti. Il ricordo di questa sua sollecitudine pastorale restò
vivissimo nella marineria di Torre anche dopo la morte di Vincenzo.
Nella sua casa di Via Piscopia sono conservati molti ex voti: ingenui
quadretti che riproducono barche coralline in balìa di furiose
tempeste, mentre in alto l'immagine del Romano indica che i marinai
erano scampati al flagello dopo averlo invocato protettore.
A questo punto dobbiamo dire che altri «ex-voto»,
a centinaia, si trovavano nell'atrio della chiesa del Carmine di
Torre del Greco. Spariti misteriosamente durante il cosiddetto boom
economico, per strana coincidenza, quella specie di quadretti da
tutta Italia, tramite i «saponari», diventati antiquari,
confluivano sulla «piazza» di Milano e attraverso la
stampa si conoscevano anche le quotazioni: 300 mila in media.
I quadretti oltre ad ornare lussuose ville dei cafoni arricchitisi
con la guerra, servirono al comune di Venezia per istituire un museo
del folklore marinaro. E dire che tale specie di museo lo avrebbero
potuto allestire i torresi, se non meglio, almeno senza spesa alcuna.
Lo scempio perpretato in alcune chiese di Torre e la sparizione
di preziosi arredi sacri è noto a tutti.
Con la venuta di Carlo di Borbone (1738), per difendere
il regno dalle incursioni barbaresche, visto che le torri di difesa
da terra non bastavano, si pensò bene di prevenirle sul mare
e proteggere così anche i navigli addetti ai traffici e alla
pesca in genere. E così ai corsari barbareschi furono contrapposti
i «corsari cristiani», i quali razziavano e predavano
alla stessa maniera degli infedeli.
Il più famoso corsaro napoletano fu lo....spagnuolo Giuseppe
Matinez, detto comunemente dai napoletani, « capitan Peppe».
Questo leggendario uomo di mare, con i suoi sciambecchi, dette filo
da torcere ai corsari barbareschi. Scrive il Caserta (op. cit.):
Egli fu per le coste africane, ciò che i barbareschi erano
per le coste napoletane: basti dire che le donne africane usavano
il suo nome per spaventare i bambini e per spingerli ad obbedire.
Insomma facevano come le nostre mamme che per ottenere lo stesso,
usavano spaventarci col nome del famigerato brigante Mammone.
Nel 1739, il Martinez, nato a Cartagine (Spagna) nel 1702, riuscì
a sbarcare sulle coste algerine e catturare perfino alcuni schiavi.
Nel 1743 catturò un bastimento tripolino con tutto l'equipaggio.
Nel 1747 catturò una galeotta tunisina con 36 mori e nel
1750 ne catturò altri 54. Infine nel mare Jonio al largo
dell'isola di Zante, nel 1752, in una battaglia navale, capitan
Peppe, mandò a picco il «Gran Leone», una potentissima
nave barbaresca. Bilancio: 10 morti tra i napoletani , 109 tra i
barbareschi.
Un ritratto del Martinez è custodito nel Museo di S. Martino
e una strada di Napoli, fino al 1943, era intitolata al leggendario
marinaio, proprio sotto il nome di «Capitan Peppe».
La strada, al disotto del Ponte della Maddalena, venne cancellata
totalmente dai bombardamenti aerei.
Gli africani catturati, tenuti in ischiavitù, erano adibuti
ai lavori più massacranti quando non avevano la... fortuna
di andare a fare i «creati» nelle case dei nobili. Molti
di loro vennero adibiti nella costruzione del palazzo reale di Caserta.
La paga di quei derelitti, non meno maltrattati dei nostri, fatti
prigionieri dagli africani, era di due o tre grana al giorno, vale
a dire due o tre centesimi di ducato, portata poi, nel 1769, a quattro
o cinque, quando un rotolo (890 grammi) di pane costava grana 4
e 3 cavalli
(1 grana=l2 cavalli). Per chi abiurava la religione mussulmana,
le cose andavano meglio.
In data 9 febbraio 1756, Re Carlo inviò al capociurma Amed
di Tripoli, detto
«lo sbirro» una gratifica di 15 ducati, per la particolare
severità dimostrata verso gli "schiavi"(M.R. Caroselli
- La Reggia di Caserta, Milano 1968).Come si vede, tutti i popoli,
a qualunque civiltà essi appartengono, hanno sempre le loro
vergogne da coprire.
Per i 15 ducati elargiti da S.M. Cattolica allo «sbirro»,
per aver maltrattato i suoi ex compagni di fede, lo schiavo rimasto
seguace di Maometto doveva sudare sangue per ben 500 giorni e nutrirsi
di solo pane, se non moriva di stenti o schiacciato sotto qualcuna
delle colonne che dovevano adornare la vanvitelliana reggia come
qualche volta era avvenuto.
Lo stesso avveniva sull'altra sponda del Mediterraneo, sulle coste
dell'Africa. Anche lì non mancavano i rinnegati che, abiurando
la fede cristiana, diventavano mussulmani e mercanti di schiavi...cristiani.
A Tunisi, nel 1612, tra gli altri c'erano due liguri: Haggi Muràd
o Morat, originario di Borghetto presso Genova, e Muràd Raìs,
il cui nome vero era Agostino Bianco e proveniva da Arenzano. E
dato che non poteva mancare, c'era anche un certo «Mustafà»,
nativo di Torre del Greco. Il suo vero nome è ignorato finora.
Si conosce soltanto che il 20 maggio del 1612, nominò suo
procuratore il padre gesuita Joseph Lambert, per recuperare la somma
di 550 scudi (560 ducati) che l'anno prima aveva prestato ad un
certo Marco Anthonino Monte ( S.Bono - I Corsari barbareschi, E.R.I.,
Torino, 1964).
Carlo di Borbone, nel 1750, accogliendo le richieste dei pescatori
di corallo torresi, diede ordine al capitano Domenico Lo Giudice
di Lipari di armare dei «feluconi» per scortare le barche
coralline che in quel tempo pescavano nei mari di Corsica e di Sardegna.
Nel tempo che i torresi stettero sulla Galita, scrivono i Castaldi
(1890) e poi il Di Donna
(1912), assoldarono altri «corsari» per proprio conto.
Questi furono Gennaro e Giuseppe Accardo e Agostino Del Dolce, torresi,
e un certo Francesco Gliutteri di Lipari. Nei vari testi da noi
consultati, soltanto Lo Giudice troviamo riportato. Evidentemente,
tutti costoro non furono protagonisti di episodi eclatanti come
capitan Peppe.
Il Codice Corallino, promulgato da Caserta dal re
Ferdinando IV, il 22 dicembre del 1789, al Titolo I, prevedeva l'istituzione
di un Consolato ,
composto di cinque individui, che sieno i più esperti e probi
Capi squadre, e Padroni di Feluche Coralline della Torre del Greco,dei
quali tre non dovevano viaggiare ma risiedere nella detta Torre
per poter regolare le differenze, che mai accadessero in quel Ceto.
Aveva la direzione della pesca, rilasciava le patenti di abilitazione
ai Capi squadri e Padroni, determinava il tempo opportuno per la
partenza delle barche.
I tre consoli che restavano a Torre erano
àrbitri di tutte le controversie che riguardavano la meccanica
della pesca, così del Corallo, come dei pesci, pei naturali
della Torre del Greco, e da essi si potrà appellare ai Giudici
competenti.
I consoli dovevano essere per la prima volta eletti da S.M., ed
in seguito dai Capi squadra (comandanti di più barche) e
Padroni delle barche coralline torresi, ai quali solo era accordata
la voce attiva e passiva, cioè la contabilità.
L'elezione del Consolato doveva avvenire ogni anno nelle Feste del
Santo Natale, a Torre del Greco nella Cappella dei Marinai (S. Maria
di Costantinopoli).
Qualche mese dopo, ai primi del 1790, il Supremo magistrato del
Commercio presentò al governo un «piano» per
regolare la vendita del prodotto pescato, in modo che i pescatori
non dovevano vendere all'estero il corallo, come era da sempre avvenuto.
Dovevano, invece, essere gli acquirenti a recarsi a Torre del Greco
e ciò per un più oculato controllo. E il 27 gennaio
1790, il primo ministro Giovanni Acton, partecipava l'approvazione
con la quale si istituiva in Torre del Greco la «REAL COMPAGNIA
DEL CORALLO».
La nascente Compagnia aveva la sua «impresa» particolare
(lo stemma) consistente in uno scudo di forma rotonda col fondo
azzurro. Nella parte superiore vi erano rappresentati tre gigli
d'oro e sotto una torre in mezzo a due frasche di corallo.
Alla Compagnia venne assegnato un fondo di 600.000 ducati, equivalente
al prodotto medio di due campagne di pesca, diviso in 1.200 azioni
di 500 ducati ognuna. Azionisti potevano essere soltanto i sudditi
del Regno di Napoli a qualunque rango appartenessero.Però
non era vietato ai forestieri di prendere interesse nella Compagnia,
limitatamente ai due terzi delle azioni, perchè un terzo
delle quali era riservato ESCLUSIVAMENTE ai cittadini di Torre del
Greco.
La Real Compagnia aveva il diritto privativo di dare ai Padroni
e Capi squadre delle Feluche Coralline il danaro per armare ed equipaggiare
e di darlo a cambio e pericolo marittimo.
La Compagnia aveva inoltre il privilegio esclusivo della compra
e vendita del corallo, ed era vietato ai pescatori di venderlo ad
altri.
L'Istituzione non ebbe nè lunga, nè prospera vita.
Non si conosce nemmeno quando ebbe termine.
L'industria dette ricchi frutti finchè c'era stata la libera
concorrenza, se pure nel disordine e con le innumerevoli liti giudiziarie,
ma appena vollero codificare tutto, finì la ricchezza.
Lo storico Pietro Colletta, così commentava:
Quando la società fu libera (allude alla Società mutualistica
«Monte dei Marinari»), benchè tra querele ed
ingiustizie prosperava; e quando, ridotta in Compagnia, ebbe codice,
finite le ingiustizie e le querele, decadde la ricchezza: la società
era spinta da instancabile zelo di privato guadagno; la Compagnia
movea lentamente per guadagno comune. Oggi dura la pesca del corallo,
ma sfortunata.
Il Coletta scrisse questo a Firenze nel 1823, nella sua Storia del
Reame di Napoli.
Tanto...sfortunata, poi non doveva essere, perchè a leggere
la spedizione delle barche coralline di Torre del Greco nel periodo
che va dal 1824 al 1837, pare che le cose non dovettero andare tanto
male, come scrive il Colletta.
Nel 1824 ne partirono 105; nel 1825, ne partirono 142; nel 1826:
154; nel 1827: 172;
nel 1828: 220 (per errore tipografico è segnato 120); Nel
1829 ne partirono 198 (è segnato 108); nel 1830: 166; nel
1831: 156; nel 1832: 114; nel 1833: 133; nel 1834: 170;
nel 1835: 207 (sta scritto 217); nel 1836: 254 (c'è scritto
erroneamente 242), ed infine
nel 1837: 229 (Pietro Balzano - Del Corallo, della sua pesca ecc.
1838 c. ristampato nel 1870).
La sfortuna piombò sui torresi sulla fine del 1861, non per
la pesca del corallo, perchè tale attività è
stata sempre fonte di ricchezza anche coi suoi alti e bassi, come
avviene per ogni genere d'industria e di commercio.
L'otto dicembre, la città fu letteralmente sconvolta per
una inconsueta eruzione del Vesuvio. Inconsueta perchè ,
per un forte bradisismo, crollarono tutti i fabbricati costruiti
sulla lava solidificata del 1794, il che vuol dire quasi l'intero
centro urbano.Il suolo si sollevò di un metro e dodici centimetri
e fu solcato da lunghi e larghi crepacci: il maggiore attraversava
l'intera città e dalle bocche apertesi sulle vecchie formazioni
del Somma, attraverso via Comizi, s'inoltrava nel mare per una lunghezza
di 1.500 metri. Ci avevano detto che la città fu salva per
un miracolo. Quale miracolo? I torresi dovettero ancora una volta
riedificare la loro città, sia pure con qualche aiuto ricevuto
dai nordici fratelli italiani che da un anno appena erano diventati
tali.
Nel marzo del 1869 , dalla «scarpetta» di Portosalvo,
salparono 300 coralline per diverse destinazioni. Pochi giorni dopo
si ebbe notizia di un fortunale abbattutosi sul Mediterraneo. Delle
barche soltanto un centinaio riuscì a raggiungere la costa
africana. Le altre, ridotte in mal stato, trovarono rifugio a Porto
Ercole nell'Argentario e nell'Arcipelago Toscano, dopo di aver gettato
nel mare tutti gli attrezzi e le provviste di bordo. Non ci risultano
perdite in vite umane, ma i giornali annunziavano ai lettori :
«Giorni di lutto per Torre del Greco».
Tre lustri dopo la Dea Fortuna mostrò di nuovo
il suo viso sorridente ai torresi.
Il 1°maggio del 1875 un pescatore siciliano di nome Alberto
MANISCALCO , soprannominato ammaréddu (ammariello, gamberetto),
a circa 30 miglia a sud ovest di Sciacca e a circa 200 metri di
profondità , scoprì per caso un piccolo ma ricco banco
di corallifero esteso intorno ai 40 mila mq.. Particolare curioso
al povero pescatore per la scoperta di un simile tesoro furono offerte...dieci
lire, racimolate a stento tra i pescatori di corallo.
Nel 1878, nella stessa zona di mre fu scoperto un altro banco alla
stessa profondità e per un'estensione di oltre 2.500.000
mq. Il banco venne denominato terraneo, perchè abbastanza
vicino alla costa.
Dalla cornucopia inesauribile della Fortuna, nel 1880, venne fuori
un terzo ed ultimo banco, stavolta più al largo, nel canale
di Sicilia, ad una profondità di 150 metri. La sua estensione
si aggirava intorno ai 17 milioni di metri quadrati. Per farsene
un'idea basta paragonarla alla superficie dell'intero comune di
Torre calcolata in 30 milioni (30 Kmq.). Questo banco venne denominato
«foraneo», perchè lontano dalla costa.
Come scrivemmo nei ns. Itinerari Torresi, la troppo fortuna si tramutò
in una crisi che mise in difficoltà anche la lavorazione
del prodotto pescato in tale enorme quantità. Se ne pescava
tanto da non trovare spazio per conservarlo. E qui dobbiamo aggiungere
che il vantaggio consisteva soltanto nella quantità. Come
qualità, per colore e per grandezza, il corallo dei banchi
di Sciacca, era di gran lungo inferiore a quella pescata nei mari
africani e nelle acque della.Sardegna.
Basta dare un'occhiata ai prezzi stabiliti sulla piazza di Torre
del Greco intorno all'anno 1880.
Per ogni quintale di corallo proveniente dalla Barberia,
lire 7.000.
Un quintale proveniente dalla Sardegna, lire 6.000.
Era stabilito lo stesso prezzo di lire 6.000 per quello pescato
nelle acque della Corsica.
Per il corallo proveniente dai banchi di Sciacca soltanto 1.000
lire a quintale.
Il corallo grezzo, così come veniva pescato, ovviamente,
non era tutto dello stesso pregio, per cui doveva necessariamente
essere assortito.
Per questo si usava un criterio basato sull'esperienza e sulla consuetudine.
Il modello adottato era un quintale di corallo pescato in Barberia,
per cui tale quantità doveva comprendere:
Corallo in partita:
Kg. 45................. di cui 25% di «mostra» (1).........................Kg.
11,-
....................................
75% di «corpo» e «scarto»(2). .........Kg.
34,-
Kg. 5........... di «chiaro» e «mole guaste»(3)..........................Kg.
5,-
Kg. 50........... di «barbaresco» e «terraglia»(4)......................Kg.
50,-
______.................................................................................
_______
Kg.100 ...................................................................................Kg.
100
1) Corallo vivo di prima scelta detto anche «capotesta».
2) Per «corpo» s'intendono i ceppi «bennati»
cioè nati bene con rami ben distinti e diritti. Lo «scarto»,
i ceppi «malnati», nati male, perchè rimangono
contorti e fusi tra loro. Corallo vivo anche questo.
3) Il «chiaro» è il corallo morto detto anche
«ricaduto» perchè strappato precedentemente e
giacente sul fondo del mare. La «mole guaste», come
i denti molari cariati, sono le radici o le basi dei cespi irregolari
«malnati», nodose e tarlate.
4) «Barbaresca»: miscellanea di tronchi e frammenti
«terraglia»: piccoli rami terminali detti anche «punte».
Nei 5 Kg. di «chiaro» e «mole guaste», per
una certa compensazione, c'era anche del corallo bianco (da non
confondere con il «chiaro».
Il corallo bianco è colore vivo, e comprato isolatamente
costava il doppio del corallo rosso.
Il 30 giugno del 1871, fatta l'Italia, Vittorio Emanuele
II venne a Napoli espressamente per premiare i vincitori dell'Esposizione
Marittima Internazionale che il figlio Umberto e la moglie, principessa
Margherita, avevano inaugurata il 17 Aprile alla Riviera di Chiaia.
La solenne cerimonia culminò con l'assegnazione del massimo
premio che la giuria all'unanimità aveva assegnato al Municipio
di Torre del Greco: premio che il sindaco cav. Beniamino Nola ricevette
dalle mani del re d'Italia.
Il premio assegnato, che riguardava la pesca e l'industria del corallo,
era un altissimo riconoscimento verso i torresi, e con esso
s'intendeva di benedire a molte generazioni di uomini
forti che, non dissimile dal mercante lombardo che tesseva, trafficava
e combatteva, sfidarono gli ardori del sole africano, le tempeste
dei mari e nemici fedifraghi e crudeli,
perchè la pesca del corallo per secoli era
costata ai torresi un vero martirio affrontato con animo forte ed
invitta costanza.
Forse il re non sapeva che un suo antenato, Carlo Emanuele III di
Sardegna, impediva la pesca dei «corallini» torresi
nelle acque sarde.
Nel 1761, i torresi dovettero subire un ricatto che i «sardagnuoli»
chiamarono ...contratto , per il quale i torresi, pur di ottenere
il permesso di pesca, si obbligarono ad inviare, meglio dire deportare,
i «corollari», gli artigiani di Torre del Greco a Carloforte
ad insegnare ivi l'arte del corallo.
Mentre battiamo queste righe (giugno 1981) una flottiglia di barche
si dondola inoperosa nelle acque del porto di Torre del Grerco.
Stavolta non sono i corsari barbaschi, non i francesi, non gli spagnoli,
ad impedire ai torresi di pescare il corallo. Sono gli stessi «fratelli»
italiani, non più uniti , ma divisi dalla non mai abbastanza
deprecabile iattura che è stata l'istituzione ad ogni costo
dell'ordinamento regionale, mai voluto da quel grande uomo che fu
Alcide De Gasperi. Esso è servito solo a creare nuovi carrozzoni
politici e a bruciare migliaia di miliardi dei poveri tartassati
contribuenti, oltre a mettere in crisi quello Stato unitario per
il quale combatterono e morirono interminabili schiere di patrioti.
Al posto del Regno di Sardegna del 1761, oggi, a porre il veto,
c'è la Reg...ione Sardegna e al posto di Carloforte (Cagliari),
c'è invece ...Alghero (Sassari), dove c'è una Scuola
del Corallo di recente istituita prendendo a modello quella che
una volta era
la Scuola d'incisione sul Corallo di Torre del Greco,
di...recente scomparsa. Su questa scuola e sull'annesso museo, detto
pomposamente «Museo del Corallo», alcuni "scribi"
torresi le hanno sparate tante grosse per cui è bene parlarne
iniziando dalla sua fondazione e lofacciamo col presentarvi il
fondatore.
I bersaglieri, al comando del generale Raffaele Cadorna il 20 settembre
erano entrati a Roma attraverso la
Breccia di Porta Pia; la capitale del Regno d'Italia però
era ancora a Firenze e da qui vennero indetti i comizi elettorali
per il 20 novembre 1870. Si votava per l'elezione alla Camera dei
Deputati dei rappresentanti del popolo (non dei partiti) per la
XI Legislatura.
Torre del Greco faceva parte del IX Collegio elettorale di Napoli
assieme al comune di Resina e alla sezione municipale S.Lorenzo
del comune di Napoli. L'uomo che doveva fondare la scuola del corallo
a Torre del Greco risultò eletto la Domenica successiva,
nell'elezioni di ballottaggio. Era l'avvocato Giovanni Della Rocca,
trentaduenne, nativo di Boscotrecase.
A diciotto anni si era laureato in legge, quantunque avesse studiato
anche lettere e filosofia, e per una legge vigente sotto i Borboni,
per essersi laureato prima dei vent'anni, fu esentato dal servizio
militare e così poté subito esordire nelle aule di
giustizia.
A 26 anni, nel 1864, era già vice sindaco nella sua sezione
di S.Lorenzo. Nello stesso anno venne eletto consigliere provinciale
per il Mandamenti di Gragnano (comuni di Gragnano, Agerola, Casola,
Lettere e Pimonte). Rieletto nel 1866 ricoprì la carica di
vice segretario sotto la presidenza di Paolo Emilio Imbriani. Fu
consigliere provinciale fino al 1883.
Nel 1867, il 28 agosto, venne di nuovo eletto consigliere al comune
di Napoli, quando venne eletto nella stessa votazione il giureconsulto
torrese Diego Colamarino, nominato sindaco della Sezione Porto.
Prima nel Consiglio Provinciale e poi nel Parlamento Nazionale propugnò
ed ottenne la costruzione della strada Castellammare-Agerola-Amalfi;
la costruzione del tronco ferroviario Castellammare-Gragnano e la
ferrovia Torre Annunziata Centrale-Cancello-Caserta.
Egli fu il primo deputato a rappresentare Torre del Greco nel Parlamento
italiano.
Si battè tenacemente per ottenere provvidenze a favore dei
pescatori di corallo. Alla Camera egli tuonava contro il Governo:
non si è avuta forza sufficiente di garantire i pescatori
di corallo sopra le Coste d'Algeria, dove da tempo remoto si esercita
tale importante industria dagl'italiani, e segnatamente dagl'intrepidi
marinai di Torre del Greco, con tale successo, che ci procaccia
una preminenza invidiata, contrastata, ma giammai rapitaci, e per
noi fonte di cospicua risorsa e di rinomanza.
Di fronte all'insensibilità del Governo verso le derelitte
provincie meridionali (sempre trascurate) egli domandava nell'aula
parlamentare:
E questa povera Napoli, il più importante centro d'Italia
per popolazione e per movimento economico; che sacrificò
volentieri tutti i suoi interessi sull'altare della patria, senza
farne pompa e menarne vanto; che essendo già capitale più
importante ed antica, fece getto di tutti i vantaggi, che all'uopo
godeva, COME E' STATA RIMERITATA?!.
E ancora:
In tutti i bilanci, e specialmente in quello dei lavori pubblici,
dev'essere equo ed imprescindibile di pareggiare con la maggiore
possibile sollecitudine le provincie meridionalia quelle di altre
regioni. Non è inoltre ragionevole che queste provincie,
le quali nel 1860 rifornirono l'erario nazionale con i bei milioni,
non siano tenute in considerazione, ma obliate e abbandonate (i
bei milioni erano stati L. 443.281.665 e 23 centesimi).
Questo grande uomo, così battagliere e ostinato difensore
dei diritti delle popolazioni meridionali, in piena legislatura,
si rese protagonista di un gesto clamoroso. Per protestare contro
il Governo SI DIMISE DA DEPUTATO, e in data 4 giugno 1873, informò
i suoi elettori (non il partito) attraverso una chiara pubblicazione
con la quale denunziava tutte le malefatte del Governo ai danni
del Mezzogiorno.
Lo storico documento, che abbiamo nelle nostre mani, reca il titolo:
Agli egregi elettori del nono collegio di Napoli (S.Lorenzo, Torre
del Greco, Resina) RENDICONTO dell'Avv. Giovanni della Rocca DEPUTATO
DIMISSIONARIO.
Ma ciò che suscita in noi ammirazione e nello stesso tempo
anche commozione sono le sue ultime parole nel «rendiconto»
dell'uomo politico ai suoi elettori.
La mia dimissione non fu effetto di giovanile bollore e di sentimenti
di amor proprio o di ambizione, sibbene mi vi spinse la sola mira
del maggior bene pubblico.
Io non aspiro a manifestazioni lusinghiere, nè mi seduce
il rilevante onore di una rielezione da cui vorrei essere dispensato.
Una sola ambizione io mi ho, ed è quella di conseguire l'indulgente
compatimento, la simpatia e il benevole giudizio de' meritatissimi
elettori che vollero innalzarmi ad un posto di gran lunga superiore
alla modesta mia persona.
Giovanni Della Rocca venne rieletto per volere di
POPOLO (allora la legge elettorale era veramente democratica: collegio
unico uninominale) e fu deputato per ben undici legislature, dal
1870 al 1903, anno in cui morì.
Nel 1876, a seguito di elezioni anticipate, ed essendo
andato al governo la sinistra del partito liberale a cui egli apparteneva,
il Della Rocca, durante la seconda sessione della XIII legislatura
(7.3.1878 - 1.2.1880 - al tempo era sottosegretario alla Giustizia)
ottenne il decreto con la quale si istituiva a Torre del Greco la
Scuola d'incisione sul Corallo e di Disegno Artistico Industriale.
Il decreto n. 4428 (Serie2) reca la data del 23 giugno 1878. La
richiesta era stata avanzata dall'on. Della Rocca fin dal 1872.
Il primo presidente del Consiglio Direttivo della
Scuola fu il professore Luigi Palmieri, direttore dell'Osservatorio
Vesuviano, che tanto si era prodigato per Torre del Greco durante
e dopo l'eruzione dell'8 dicembre 1861.
La scuola fu voluta anche dagli amministratori locali, ed in modo
particolare dal dott. Antonio Agostino Brancaccio, consigliere provinciale
e comunale. Eppure, non si crederebbe, gli artigiani torresi, dopo
alcuni anni, vedendo le nuove leve uscire dalla scuola meglio preparate
di loro in tutte le lavorazioni del corallo, temendo la concorrenza
dei giovani, cercarono con ogni mezzo di sabotare la vita della
scuola riuscendo perfino a chiuderla.Avvenne nell'ottobre del 1885.
A salvare la scuola non fu un torrese, anche se,
poi, egli amò Torre del Greco, più degli stessi torresi.
Stiamo parlando di Enrico Taverna.
Inviato dal Governo, egli giunse da Torino (dove era nato il 4 maggio
del 1864) nel marzo del 1886.
E quando sembrava che tutto crollasse, quando la scuola agonizzava,
il 5 novembre, davanti al Consiglio Direttivo presieduto dal Cav.Aniello
d'Amato, formato dall'On. Giovanni della Rocca,dal Cav.Dott. Antonio
AgostinoBrancaccio e dal Sig. Aniello Mazza «papote»
presente il rappresentante del Prefetto, il ventiduenne giovane
artista Enrico Taverna, dopo di aver illustrato ai presenti il programma
svolto durante il breve periodo di quell'eccezionale anno scolastico
che durò dal 27 marzo al 27 agosto 1886, e dopo aver espresso
la sua fiducia negli insegnanti e negli allievi e comunicato al
Consiglio alcuni pareri espressi dal pittore napoletano senatore
Domenico Morelli circa il materialer didattico da acquistare per
il disegno dal vero, quali busti e bassorilievi in gesso e getti
di antichi cammei, così concluse la sua relazione:
Dunque coraggio! produciamo (mercé fondati studi) artisti
veri, esperimentiamo nuove applicazioni, e, se poi i nostri tentativi
riusciranno infruttuosi, avremo però sempre la coscienza
d'aver tentato.
Il tentativo di Enrico Taverna non fallì: la scuola era salva
e in pochi anni raggiunse una rinomanza mondiale, distinguendosi
in tutte le più importanti esposizioni internazionali.
Il Taverna, fin da giovanissimo, era già un tecnico, prima
di divenire poi il grande maestro ed educatore quale egli fu, e
come tale conosciuto in diverse nazioni europee.
Compì gli studi presso l'Accademia Albertina di Belle Arti
di Torino meritandosi innumerevoli premi e medaglie in tutti i concorsi
ai quali aveva partecipato.
Dopo gli studi fu destinato al Museo Artistico Industriale di Torino.
Da qui, con la lettera del Ministro dell'Agricoltura, Industria
e Commercio, in data 12 marzo 1886 (vale a dire all'età di
22 anni non ancora compiuti) fu inviato a Torre del Greco a dirigere
la Scuola d'Incisione sul Corallo e di Disegno Artistico Industriale.
Tale era la denominazione della scuola all'atto della sua fondazione.
Egli viveva soltanto per la scuola, fin da quando vi aveva posto
piedi (non le mani).
Qelle che seguono sono sue parole stampate nella sua prima relazione
pronunciata il 5 novembre 1886 davanti al Consiglio Direttivo.
Per plauso e per disposizione dello stesso Consiglio, ne furono
stampati cento esemplari nella tipografia Giannini di Napoli. Ed
ecco le parole del Taverna con le quali egli esprime la riconoscenza
verso il Consiglio e la sua promessa per il futuro:
Sì nobile ed onorevole incoraggiamento mi sarà dunque
continuo sprone verso il mal praticabile e difficile cammino del
progresso, per quanto potranno le mie forze. Mi siano propizi il
mio desiderio e la mia perseveranza nel forte volere.
Quella perseveranza e quella volontà accanita durarono poco
meno di mezzo secolo; per l'esattezza 48 anni.
Egli ci parlava sempre della scuola e solamente della scuola, mai
di se stesso o della sua attività artistica, né, tantomeno,
dei suoi fatti personali. Egli, oltre l'arte, insegnava la modestia
e la lealtà con il suo esempio.
Per la sua riservatezza, noi che scriviamo, pur avendo vissuto per
tanti anni al suo fianco, non avevamo mai saputo che il suo primo
nome non era Enrico, ma Giovanni, anzi : Giovanni, Enrico, Achille...
Agli inizi dell'anno scolastico 1902-1903 maestri
e allievi della Scuola lavoravano alacramente al programma per la
celebrazione del XXV anniversario della sua fondazione. Il prof.
Domenic Porzio già preparava la medaglia commemorativa, quando
nella sua casa di Napoli, il 23 febbraio 1903, tra l'universale
cordoglio, si spegneva Giovanni della Rocca, deputato al Parlamento
per undici legislature e per 33 anni ininterrottamente reppresentante
politco di Torre del Greco.
Enrico Taverna davanti alle spoglie mortali dell'uomo illustre,
volle esprimere tra le lacrime tutto il dolore e la riconoscernza
che in quel momento riempiva gli animi degli allievi e dei maestri
di quella gloriosa scuola.
La scuola torrese del corallo - egli disse - compiendo al 23 giugno
prossimo il 25° anniversario della sua fondazione, si preparava
adesso a festeggiare il suo illustre fondatore e presidente...
Ed ora ch'ei godeva del conquistato primato della prediletta sua
scuola, portata ad esempio di modernità per le antiche sue
riforme didattiche ed artistiche, egli è sceso nel regno
inconsolabile della morte.
Il 23 giugno seguente, sia pure con mestizia, venne celebrato l'anniversario
com'era stato già programmato e l'allora presidente, il comm.
Bartolomeo Mazza fece murare nei locali della scuola una rapide
ricordo. Tra una cornice di foglie d'allorocome voleva lo stile
liberty dell'epoca, si leggevano le seguenti parole:
ANTONIO AGOSTINO BRANCACCIO E GIOVANNI
DELLA ROCCA
NELLA RICONOSCENTE MEMORIA DEI FIGLI DELL'ARTE
VIVRANNO IMPERITURI
QUALI PROMOTORI ED APOSTOLI
DI QUESTA R.SCUOLA D'INCISIONE SUL CORALLO
E DI ARTI DECORATIVE ED INDUSTRIALI
NEL 25° ANNIVERSARIO DELLA SUA FONDAZIONE
IL CONSIGLIO DIRETTIVO POSE QUESTO RICORDO
AFFERMANDO I PROGRESSI DELL'ISTITUTO
CHE ANTESIGNANO NELLE AUDACE RIFORME
DELL'INSEGNAMENTO ARTISTICO
PRIMO INDIRIZZATO AI MODERNI CONCETTI
DEL NUOVO RINASCIMENTO NELL'ARTE
BENE AUSPICANDO
LO STORICO SEGNACOLO DEL SECOLO
La lapida era sormontato da un bassorilievo raffigurante
le due teste a profili affiancati di Antonio Brancaccio e di Giovanni
Della Rocca. Venne rimessa nel periodo in cui la scuola cambiando
«sesso»
ed indirizzo, diventò (nobless obligue) : Istituto Statele
d'Arte.
Di istituti d'arte se ne contano a centinai, ma la
Scuola d'Incisione sul Corallo di Torre del Greco, fondata nel 1878,
era l'unica al mondo, ed era stata istituita proprio per la formazione
degli artigiani torresi. Il cambiamento dell'indirizzo della scuola
è stato un grave attentato perpetrato ai danni di Torre del
Greco e specialmente all'industria del corallo.
Il ricordo marmoreo di Antonio Agostino Brancaccio e di Giovanni
Della Rocca, cioè la lapide di cui abbiamo riportato l'iscrizione,
giace all'intemperia nel chistro dell'antico convento in cui si
alloggia la scuola...oh, scusate, l'Istituto Statale d'Arte!.
Nel febbraio del 1978, all'approssimarsi della data
del centenario della fondazione della scuola, sul giornale «La
Torre», pubblicammo un articolo sul fondatore Della Rocca,
e concludemmo con un invito a chi di dovere a rimettere al suo posto
la lapide rimossa, «affinché Torre del Greco non dimentichi»
Dopo tre anni e dopo le supplichevoli lamentazioni rivolte ai politici
e a culturati, ci è stato detto che non si trova nessun marmista
disposto ad eseguire il lavoro. Inutile aggiungere che alla data
del 23 giugno 1978 la ricorrenza del centenario della fondazione
della scuola non venne celebrata.
Un rimorso ci attanaglia: se non avessimo scritto NOI quell'articolo,
ed avanzata NOI la proposta per il ripristino della lapide, certamente
sarebbe stato celebrato il centenario e trovato anche...il marmista....affinché
Torre del Greco non dimentichi.
Un'altra cosa, che i torresi non dovranno mai dimenticare, riguarda
il cosiddetto Museo del Corallo annesso all'attuale «Istituto
d'Arte», del quale, dopo il massacro di questi ultimi anni,
oggi si chiede la restaurazione dalle colonne del giornale locale
(«La Torre» ottobre 1980).
Dallo stesso giornale, nell'aprile del 1968, i torresi avevano appreso
attraverso una strabiliante «notizia storica» che il
Re Ferdinando IV nel 1810 volle istituire il Museo del Corallo,
annesso alla Scuola d'incisione.
Come tutti sanno, nel 1810, Ferdinando si trovava a Palermo, mentre
sul trono di Napoli era assiso Giuseppe Murat, e la Scuola d'Incisione
era ancora di là da venire.
Dovevano trascorrere altri 68 anni. E visto che l'inquinamento «storico
culturale»sta diventando preoccupante, dobbiamo per forza
ricorrere ad altre precisazioni per quanto riguarda il Museo del
Corallo, come pomposamente viene chiamato.
Il petente che chiede la restaurazione del locale, ripetendo fino
alla nausea le parole arte e cultura, cultura e arte, con tutte
le «manifestazioni culturali» di questo mondo, lascia
capire che negli «anni settenta», la genialità
e la civiltà (!!!) di Torre del Greco, «si è
addirittura decuplicata», tramite il «Museo del Corallo».
Il «docente» articolista accenna pure a qualche dato
storico, e ci fa capire che la Scuola (puah!) ma l'Istituto d'Arte
venne «ospitato nel vecchio complesso conventuale che fu dei
CarmelitaniScalzi».
Pur vivendo strisciando sotto la sottana protettrice di un prete
e pur annidatosi in una sagrastia adattata a galleria d'arte...sacra,
gestita a conduzione famigliare, certi «docenti» non
sanno neppure che nel convente del Carmine di Torre del Greco, c'erano
i Carmelitani calzi, non quelli scalzi. Gli scalzi stavano, e stanno
ancora, nel convento di S.Teresa.
L'articolista scrive inoltre che «in quella poi che dovette
presumibilmente essere una delle cappelle del convento o, chissà,
forse il refettorio, è ospitato il Museo del Corallo».
Non è vero niente di tutto questo. E dato che in tutto l'articolo
non c'è alcun cenno all'epoca in cui il «museo»
sorse, abbiamo l'obbligo di informare i torresi e i non torresi,
affinchè sappiamo esattamente quando e come sorse il cosiddetto
Museo del Corallo.
L'idea di istituirlo era già nell'aria fin dalla fine del
secolo scorso ed era progetto di Enrico Taverna.
In una pubblicazione del 1896, leggiamo: Per meglio incoraggiare
l'industria artistica , la Scuola d'incisione ha istituito un'officina
per la produzione ed il commercio di oggetti artistici di novità
e sta fondando anche un Museo del Corallo, che sarà unico
nel suo genere ed una singolare attrattiva della città..
Il susseguirsi degli eventi non dovettero consentirne
la realizzazione: primo fra tutti la scomparsa del presidente Della
Rocca (1903) , indi l'eruzione del Vesuvio (1906) e poi la Grande
Guerra 1915-18.
Nel 1928 ricorreva il cinquantenario della fondazione della Scuola
e la data passò sotto silenzio, anche perchè allora
si pensava a...«marciare».
Dopo la «marcia», nel 1930, invece delle chiacchiere,
vennero varate consistenti provvedimenti a favore della Scuola,
tra le quali la ristrutturazione delle aule e l'ampliamento di tutto
il complesso, utilizzando i locali a pianterreno che non erano stati
mai della Scuola.
Il costo complessivo dei lavori non superò le 400.000 lire,
così erogate:
dal Ministero dell'Educazione Nazionale, lire 175.000; dal Comune
di Torre del Greco, lire 87.500;
dall'Amministrazione Provinciale, lire 87.500; ed infine dal Banco
di Napoli, lire 50.000 che vennero spese, tutte o in parte, per
il pavimento maiolicato del salone di esposizione.
E di tutti i particolari di cui diamo notizia li conosciamo per
cognizione di causa e non per sentito dire, anche perchè
frequentavamo la Scuola non come alunno, ma come collaboratore del
direttore Taverna e nessuno più di noi ha avuto l'onore di
conoscerlo tanto da vicino e di seguirlo come maestro di vita.
Proprio durante il corso dei lavori, che si protassero un po' a
lungo perchè la Scuola non cessò mai di funzionare,
il direttore Taverna ci affidò il còmpito di disegnare
le tavole di un suo progetto per una chiesa da costruirsi a Buenos
Aires, progetto commissionato dai Padri Missionari dei Sacri Cuori
di Secondigliano.
Per qualche giorno fummo distolti da questo lavoro per eseguire
i rilievi del salone che già si profilava nel grezzo e che
il progettista, direttore dei lavori, aveva richiesto per la decorazione
da predisporre.
Il progettista era lo stesso ispettore ministeriale, l'ing. arch.
prof. Giovan Battista Céas.
Ai marittimi torresi, e sono tanti, diremo che l'architetto Céas
fu il grande innovatore dell'estetica architettonica delle navi
di tutto il mondo,con la costruzione delle due motonavi «Saturnia»e
«Vulcania» che, prima di appartenere alla Società
di Navigazione «Italia» facevano parte della flotta
Cosulich di Trieste.
Diremo anche che il Céas è autore di un interessantissimo
studio sull'architettura di Capri, dove egli sovente risiedeva in
una sua villa. Quello che non diremo è il grande imbarazzo
che provavamo quando dovevamo tracciare sia pure dei semplici elementi
architettonici, tenendo seduto al nostro fianco un uomo di tale
elevatura. Ci perdonino i lettori se ci siamo lasciati trasportare
dalla nostalgia per quei tempi...diciotto anni l'età! La
giovinezza.
Per la precisazione dobbiamo aggiungere subito che il salone non
venne ricavato né da una cappella, né tantomeno da
un refettorio - come il«docente» scrisse sul giornale
locale - ma da piccoli vani dei quali furono abbattuti i muri intermedi.
In quelle stanzette fino a qualche anno prima c'era stata un'officina
meccanica.
Pur se i lavori per la ristrutturazione del complesso non furono
finiti, dato che la Scuola era stata intitolata alla Principessa
di Piemonte, il 10 luglio 1032, avvenne l'inaugurazione con l'intervento
dei Principi.
Per l'occasione, il pittore Salvatore D'Amato eseguì il tappeto
di fiori lungo il corridoio d'ingresso.
Il bravo artista ebbe cura di presentare il tappeto con un angolo
piegato che il principe Umberto si premurò di stendere con
la punta dei piedi, rimanendo poi dispiaciuto per averlo, con il
suo gesto, disfatto.
Salvatore D'Amato fu nominato cavaliere della Corona d'Italia e
nessuno lo seppe mai.
Per l'evento fu murata una lapide. Noi la riportiamo anche se...passata
di moda, con la speranza che non ci accusino di sacrilegio o di
offesa alla democrazia.
Le lapidi fanno parte integrante della storia e non si dovrebbero
distruggere e nemmeno piallare per cancellare «qualche»
nome.
VITTORIO EMANUELE III RE VITTORIOSO
DUCE BENITO MUSSOLINI
QUESTA REGIA SCUOLA PRINCIPESSA MARIA DI PIEMONTE
INSTAURATA
PER VOLERE DEL GOVERNO NAZIONAL FASCISTA
INAUGURAVA IL 10 LUGLIO 1932 - X - E.F.
PRESENTI E AUSPICANTI
LE LL.AA.RR. IL PRINCIPE E LA PRINCIPESSA DI PIEMONTE
IL MUSEO DEL CORALLO
ONDE L'ARTE INDUSTRIE E IL SENTIMENTO CREATORE
DEL NOSTRO POPOLO IN FORME DI BELLEZZA
S'ETERNA
Il 22 aprile 1933 i reali personaggi erano di nuovo
a Torre del Greco per inaugurare gli altri locali i cui lavori erano
stati portati a termine.
Enrico Taverna non poteva chiudere meglio la sua lunga e luminosa
carriera di artista e di educatore. Maestro di vita oltre che di
arte , dopo 48 anni, durante i quali la Scuola toccò tutti
i vertici dello splendore , mai più raggiunti, egli lascio
la direzione .
Il 6 ottobre del 1934 l'incarico venne affidato al prof. Renato
Ferracciù artista dedicato e preparatissimo.
La stragrande maggioranza degli oggetti raccolti nel Salone di esposizione
risalgono al periodo in cui egli diresse la Scuola.
Dopo il secondo conflitto mondiale la Scuola non ha avuto più
storia. Anzi, come dicevamo prima, è scomparsa addirittura,
per dar posto all'attuale Istituto d'arte, che nulla ha a che vedere
con l'antica Scuola d'Incisione sul Corallo, unica al mondo nel
suo genere.
L'eredità di quegli uomini non è stata raccolta da
nessuno - al contrario di quanto affermano falsamente certi millantatori
in fregola di «arte e cultura, cultura e arte» - ; semmai,
proprio quella «eredità», è stata depauperata
e distrutta, ripetiamo, con grave nocumento per Torre del Greco,
per l'industria del corallo e per l'artigianato torrese.
L'intraprendenza dei torresi sul mare non ha mai
avuto limiti.
Nel 1888 un armatore di Torre del Greco, non sappiamo chi fosse,
né quali mezzi adoperò, tentò la pesca delle
perle nel Mar Rosso, lunga la costa dell'Eritrea. Lo Strafforello,
dal quale abbiamo attinto la notizia, afferma che l'operazione fallì
perchè i marinai torresi non poterono resistere a quel clima
torride. Siamo portati a credere che invece delle perle i torresi
trovarono le fauci spalancate degli squali che infestano quel mare.
Nel 1895, oltre alle 111 barche partite alla volta di Sciacca per
la pesca del corallo, levarono le ancore dal porto di Torre del
Greco ben 54 trabàccoli diretti all'isola di Lampedusa per
la pesca delle spugne.
Il trabàccolo, un piccolo bastimento dalla forma tozza e
con la carena piatta, è un imbarcazione ancora usata nell'Adriatico
e che i torresi per l'uso che ne facevano chiamavano «'a spugnara».
Intorno agli anni '20 di questo secolo tale attività era
ancora viva.
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